Della conversione di Silvia Romano non deve importare a nessuno

Che Silvia Romano si sia convertita, a chi, a cosa, come, non deve interessarvi: fossi prigioniera e pensassi di votare la mia esistenza a Lord Voldemort per aiutarmi a sopravvivere, probabilmente mi tatuerei a fuoco una saetta sulla fronte.
Invece  è tutto un mettere becco, un giudicare le modalità che una ragazza di ventitré anni – sola e tenuta prigioniera dall’altra parte del globo, costantemente a rischio di venir uccisa o ceduta da un gruppo terroristico all’altro – ha adottato per restare a galla, per non perdere quel poco di speranza che serve a restare vivi.

silvia romano atterra in italia
Silvia Romano al momento dell’arrivo in Italia

In due mesi di pandemia e lockdown abbiamo visto aggrapparsi a qualsiasi teoria complottista permettesse di tirare avanti, perché persino la più folle idea da romanzo di Dick – il virus è stato creato in laboratorio, il virus è una montatura, c’entra il 5G, dietro c’è Bill Gates – pare più accettabile dell’insondabilità del caso.
E siccome il caos atterrisce, per non sprofondare nel baratro dell’impotenza si preferisce credere a qualsiasi balla pseudoscientifica diffusa dal primo che passa dotato di una connessione Internet.
Abbiamo reagito così, anziché soppesare le pieghe imprevedibili che può prendere Madre Natura o (non troppo in ultimo) quanta responsabilità umana ci sia in questa epidemia, di quanto stia un po’ ad ognuno di noi la riflessione su come da decenni stiamo brutalizzando la Terra ed il suo verde.

Ci sono situazioni nella vita  in cui nessuno, nessuno sulla faccia della Terra è autorizzato a giudicare circa come ci aiutiamo a sopravvivere, possibilmente senza riportare troppi danni fisici o mentali.
Bessel Van Der Kolk, uno dei massimi esperti mondiali di Post-Traumatic Stress Disorder, scrive: “Essere in grado di muoversi o di fare qualcosa per proteggersi è un fattore essenziale nel determinare se un’esperienza traumatica lascerà cicatrici profonde che rimarranno per molto tempo”.

Silvia Romano ha vissuto quello che definire un trauma è un eufemismo. Se convertirsi ad un’altra religione l’ha aiutata a percepire di avere una via d’uscita, le ha dato sollievo, ha permesso al suo cervello di difendersi almeno in parte dagli effetti devastanti che la prigionia avrebbe potuto comportare (e probabilmente ha comunque comportato), ha circoscritto le conseguenze del trauma subìto, non c’è nessuno a cui deve rendere conto per questo.
Anzi, grazie al Cielo che l’ha trovato.
Il resto è un borbottio di scimmie da salotto: incapaci di accorgersi del piagnucolio protratto settimane perché mancava il sushi e altrettanto incapaci di ammutolirsi all’istante, e cedere il passo al silenzio di fronte a ciò che nessuno di noi potrà mai davvero capire.

Maria Musso