Walkin’ on the Moon – Pensieri sparsi nella notte in cui è morto Neil

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Il Novecento, che ci siamo lasciati alle spalle ma che serbiamo gelosamente nel cuore, come sarà visto tra due, trecento anni? La mia speranza è che la distanza faccia il suo dovere, e sgravi i nostri lontani nipoti dal peso delle sofferenze e delle ingiustizie vissute.
Due volte in guerra contro se stesso, in ogni sua parte; gli stermini, le segregazioni dei neri, il terrore per le bombe atomiche, le catastrofi ambientali, gli squilibri economici e sociali, la divisione in Nord e Sud del mondo. Questi sono solo i capilettera dei capitoli neri, estesissimi e sanguinanti: potremmo andare avanti pagine.

La distanza, dicevo. La distanza, come capita coi lontani ricordi umani, addolcisce: si ricordano immediatamente le risate, gli scherzi, le situazioni emozionanti; dopo, i dolori, le angosce, la rabbia. 
Spero dunque che tra due o trecento anni si ricordi il Novecento come un secolo di grandi errori, eppure anche di grandi conquiste.
Secolo lungo o secolo breve, queste cose le lasciamo ai professori di storia e filosofia. Ma la notte in cui muore Neil Armstrong io, piccolo uomo della fine del millenovecento, penso.

Penso che alla fine il “mio” secolo (non sentiamoci troppo moderni, amici nati negli anni ’80 e ’90: la nostra mente ragiona con schemi del 1900, calcoliamo la vita in Lire e per noi un viaggio fino a Dublino resta ancora un viaggio lungo. Lungo? Per due ore di aereo?) ha inciso tacche profonde sulla stele dell’umanità.
E la più profonda è quella di Neil.
Neil è stato strumento dell’umanità, il primo a poggiare il piede su un satellite dopo aver abbandonato il pianeta. Il primo alieno della storia, in fin dei conti – sulla luna, l’alieno era lui.

Ma poi – quando ci sono eventi significativi, non è male divagare un po’ – il Novecento è il secolo il cui gli umani sono diventati tanti.
Sei miliardi, un numero che la cognizione ha difficoltà a rappresentarsi. 
Gli umani hanno iniziato a vivere più a lungo, a non morire più per inezie; una parte di essi ha addirittura iniziato a mangiare in quantità soddisfacente, tutti i giorni.
Tutte cose che nei 6 milioni di anni di evoluzione umana (e nei seimila di Storia dell’umanità) non erano nemmeno prese in considerazione.

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Il Novecento ha insegnato all’uomo a mangiare, a viaggiare, a curarsi, a costruire in maniera più grande e più sicura. 
Nella notte in cui muore uno degli uomini più straordinari della Storia (anche se dicono che fosse un orso, poco importa), mi viene da pensare ai nostri lontani pronipoti: quando parlerete di noi, sì, è vero, siamo quelli dei sei milioni di morti in cinque anni, siamo quelli che mentre due continenti erano obesi tre morivano di fame, quelli che discriminavano, quelli che meglio costruire una atomica più del nemico.
Ma abbiamo fatto anche tanto altro.

Per esempio, abbiamo continuato a esplorare, in ogni campo.
I casi della vita avrebbero potuto portare chiunque a tenere tra le mani la polvere della luna: un’idea improbabile, vero, ma d’un tratto concepibile. Abbiamo fatto nostri la luna, lo spazio e tante altre cose.
Quando parlerete di noi, non siate troppo severi.
Questo, cari pronipoti, mi viene da dirvi, la notte in cui è morto Neil.

Umberto Mangiardi
@UMangiardi

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