Un’Europa federale? il caso del Belgio

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A Bruxelles già a metà novembre tira forte il vento, lungo il trafficato corridoio di Rue de la Loi. Su un fianco della via, gli imponenti palazzi di vetro della Commisione Europea sfidano gli edifici austeri – anch’essi occupati da uffici amministrativi – dell’area urbana che si affaccia sul quartiere di Ixelles e St Gilles. 
Quest’anno, però, il vento di novembre è meno freddo rispetto a  quello – politico – dei disastrosi 541 giorni senza governo che hanno afflitto l’opinione pubblica tra le elezioni del 2010 e la nomina dell’esecutivo di Elio Di Rupo nel dicembre 2011.

Un caso che resta isolato nelle proporzioni temporali, ma che ricorda da vicino lo stallo della politica italiana dopo le politiche di febbraio: anche in Belgio, come avvenuto con il nostro M5S, a pesare sulla bilancia delle contrattazioni sono stati gli outsiders del N-Va (Nuova Alleanza Fiamminga), forti della maggioranza relativa (raggiunta con il 30% delle preferenze) e in aperto contrasto con la maggior parte dell’establishment partitico che ha storicamente guidato il paese natio di Jacques Brel.
Sotto l’occhio imbarazzato del monarca Alberto II, lo scontro tra N-Va e il PS (Parti Socialiste) francofono ha catalizzato l’attenzione mediatica di tutto il mondo, mettendo in dubbio ancora una volta le sorti del Belgio come nazione unita. Il casus belli della grave crisi di due anni fa chiamava in causa proprio Bruxelles, capitale belga ed europea, nonché – al tempo stesso – capitale della regione delle Fiandre.

Dalla campana francofona, invece, si è espresso stupore per la gelosia territoriale espressa dal partito separatista, sottolineando come l’uso della lingua francese in territorio fiammingo non costituisca una minaccia per l’integrità della cultura “avversaria”. Insomma, il solito guazzabuglio di rivendicazioni e di accuse reciproche che ha sempre accompagnato la travagliata storia del paese belga – già dalle sollevazioni di piazza che nel 1830 condussero all’indipendenza dal potente Regno Unito dei Paesi Bassi.
Da una parte i separatisti fiamminghi sull’onda dello slogan populista “België? Barst! (Belgio? Che crepi!)”, dall’altra la minoranza francofona a sostenere la bontà le riforme federali del 2001, appoggiate dallo stesso sovrano per chiarire le competenze delle amministrazioni del Nord da quelle del Sud vallone.
Secondo Bart de Wever, leader del N-Va, lo status misto della circoscrizione Bhv (Bruxelles-Hal-Vilvoorde) non avrebbe rispettato gli accordi di ripartizione dei poteri tra le due anime dello Stato belga.

Il risultato, come detto, si è presentato nelle vesti di un anno e mezzo di vacanza governativa, di recrudescenza della tensione idenditaria e – inaspettatamente – di una discreta crescita economica. Il dato, che ha stupito più di un osservatore, non lascia spazio a dubbi: nelle fasi iniziali e centrali della crisi economica che tuttora piaga il continente, il Belgio ha saputo raggiungere una crescita del 2% nei due anni precedenti il 2011, mentre per le proiezioni per l’anno in corso (disastrose in nazioni dalla più consolidata stabilità politica e sociale) ostentano un timido – quanto positivo – segno di più 0,2%.

Poco, però, per investire il caso belga di un ruolo di “modello di democrazia” anomalo, come paventato dal pentastellato Vito Crimi durante il balletto istituzionale che ha preceduto il voto di fiducia al governo Letta. Secondo l’esponente del M5S, “un esecutivo di ordinaria amministrazione non ostacolerebbe il lavoro dell’aula parlamentare, vera depositaria del volere popolare e via maestra per l’azione legislativa“.
La vox populi raccolta dai sondaggi di opinione, contro il parere dell’esponente grillino, racconta – come anticipato – una storia diversa: i belgi di entrambi le fazioni – nonostante la buona congiuntura economica di cui sopra – si  sono espressi con rabbia e amarezza sulle condizioni generali del Paese, con chiaro riferimento alla diatriba storico-sociale che inquina l’organizzazione statale come la quotidiana convivenza sulle piazze di Bruxelles, come nella fiamminga Anversa e nella vallona Liegi.

Forse, in una fase di dibattito completamente ossessionata dalle alterne sorti dell’economia di mercato, l’affaire belga – nel cuore dell’Unione Europea, che batte sotto il lastricato della Grand Place – può aiutare a considerare da un punto di vista più ampio le questioni che gettano nell’angoscia tutto un continente.
Ma allora, come si può inserire il caso di un piccolo Paese che punta ad un’ulteriore divisione in un quadro politico che – escluse le posizioni tuttora minoritarie degli antieuropeisti – tende sempre più decisamente ad una (ancora nebulosa) idea di unione politica oltre che economica, spesso indicato sotto il titolo programmatico di “Stati Uniti d’Europa”?

Il punto sta proprio qui: per un’Unione che prova ad ingrandirsi oltre i confini storici (come dimostrano le trattative con la “culla di tutti i russi”, l’Ucraina) e a consolidare la propria autorità in ottica sovranazionale, il duello che si svolge sotto il cielo cupo del Belgio può rappresentare una paradossale scorciatoia per provare a stampare la cartina politica di domani. Una via paradossale, appunto, perché l’ostacolo più evidente da superare – in vista di un’unione a poteri forti, sulla scorta dell’esempio statunitense – è più volte stato indicato proprio nelle divisioni linguistiche e culturali tra i Paesi membri, presenti perfino nella biografia collettiva di una regione poco estesa come quella del Paese stretto tra Francia e Olanda.
È possibile mettere a tacere le rivendicazioni di popoli che non vogliono convivere sotto la stessa bandiera? La storia sconsiglia l’opzione della coercizione (chi ha detto Jugoslavia?) e offre altri spunti sulla linea del compromesso: nel 1992, il divorzio light tra i cechi e gli slovacchi ha permesso ai primi di affrancarsi dalle salate imposte sovietiche, mentre ha offerto alla stagnante economia di Bratislava l’opportunità di organizzare un mercato nuovo, capace di stringere accordi di cooperazione fruttuosi con diverse realtà estere. Sopratutto – e a vantaggio di entrambi – con la neonata Repubblica Ceca.

Allora, se il nemico fatale del federalismo è la monoliticità dello stato nazionale, forse si può non dire lo stesso del sentimento nazionale (o del più generale riconoscimento nel corpus culturale di una comunità, distinta sopratutto dai vicini più prossimi). Controintuitivamente, la via più efficace di giungere ad un’Unione con la U in maiuscolo passa proprio dal riconoscimento e dal ricollocamento dei frammenti identitari sparsi per il Vecchio Continente in una grande federazione di piccoli Stati, sullo spirito – ancora cauto – delle riforme di ripartizione politica e amministrativa tra fiamminghi e valloni promosse dalla politica belga.
L’esempio dell’economia di Bruxelles – in crescita nonostante la vacanza dell’esecutivo – ben si sposa infatti con il caso dell’ex Cecoslovacchia. La forte manifattura fiamminga, strettamente collegata (per ovvie ragioni) al più eterogeneo sistema economico vallone, non necessita di un governo unico per esprimere il proprio potenziale e trovare la quadratura della bilancia commerciale.

Al contrario, la definizione di due Stati sovrani e la successiva (e per ora fantascientifica) definizione di un’Unione a più ampi poteri potrebbero addirittura incentivare la possibilità di scambio commerciale e politico, grazie alla possibilità di concentrarsi su una politica economica “su misura” sulle esigenze del territorio ma – al tempo stesso – attraverso un’uniforme garanzia di diritto offerta da un governo di formazione continentale.
Al contrario di quanto affermato da Crimi, il non-governo non è una coperta più calda del “troppo governo”. Un governo a più livelli, invece, capace di coordinare le cento anime forgiate durante millenni di storia europea, potrebbe essere l’unica arma per difendersi dal freddo, gelido vento di incompiutezza che soffia da troppo tempo sulle Rue de la Loi di un intero continente. Passando – magari – anche dalla temporanea amarezza delle separazioni consensuali.

Matteo Monaco  
@twitTagli

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