
“Lo sentivo, sarei stato stritolato da un meccanismo omicida.
Otto ore di lavoro al giorno, tre settimane di ferie l’anno. Avrei venduto l’unica cosa che mi era rimasta di mio oltre il culo, il tempo.
E a pochi mesi dalla pensione avrei scoperto di avere il cancro. Addio Walter”.
(dal film “Tutti giù per terra”)
Nasciamo, impariamo a parlare, passiamo i primissimi anni a giocare e poi comincia la scuola.
Studiamo, studiamo studiamo, passano i primi 5 anni. Arrivano le medie, cominciamo a capire che sotto sotto c’è una ragione per studiare, anzi due: non essere degli zotici analfabeti e studiare perché un domani dovremo andare a lavorare. Ma alle medie, il lavoro è un concetto metafisico, sideralmente lontano.
Passano questi 3 anni: volenti o nolenti, si arriva al liceo. Lì dovremmo – ormai – aver capito la necessità di studiare per noi stessi, senza il motore immobile del “compiacere i nostri genitori”: sarà lo studio a salvarci le penne nel mondo del lavoro. Passa il liceo.
Università: la prima crisi.
- Niente più interrogazioni a casaccio in grado di terrorizzarci;
- niente più verifiche mensili;
- niente più professori cui lontanamente frega qualcosa di te.
Molti si perdono, molti altri però tengono duro: solo più 5 anni, l’ultimo maledetto scoglio per lavorare ed avere soddisfazioni. Cinque stramaledettissimi anni li separano dalla realizzazione. La laurea, arriva finalmente. Sacrifici, soddisfazione, tutti felici. Finalmente si va a lavorare, chissà quali cose incredibili!
Mondo del lavoro: la seconda crisi.
Generalmente si parte dallo stage, che il più delle volte è mal retribuito se non gratis: prima badilata in faccia (di una lunga serie). Sostanzialmente, a noi della generazione “Devi studiare, ventre basso, impegnati! Solo così ti costruirai un avvenire” hanno raccontato una marea di stupidaggini: studi una vita intera per finire a fare lo sguattero ultima-ruota-del-carro seduto ad una scrivania.
Proprio tu, che hai studiato tanto, sei soggetto alle più o meno variegate angherie del tuo capo del momento: sì, proprio tu.
Ricordi come ti immaginavi lo sfavillante mondo del lavoro? Tu, quello del “Dai, ancora un piccolo sforzo!”: ora sei lì, tra una fotocopia ed una email, tra una telefonata da rimbalzare e l’attesa del prossimo scaricabarile. Tra pochi secondi ti verrà dato da svolgere l’ennesimo lavoro frustrante o per niente stimolante: ti brucerai le tue giornate e molta vita privata: “Eh, ragazzi, esco tardi dall’ufficio, facciamo un’altra volta”.
In risposta alle tue crisi di nervi, larghi sorrisi: “Eeh, vabbè, ma devi imparare a lavorare prima! La gavetta la fanno tutti eh!“. Ingoi solo momentaneamente questo rospo bieco, tu ne uscirai a testa alta. Nel frattempo, ti svegli tutte le mattine presto, ti metti la tua cravatta o il tuo tailleur e, con le tue scarpe da ufficio e il passo da ufficio, vai a lavorare tutti i giorni.
Un giorno però ti rinnovano lo stage per altri mesi, e si accende in te una flebile speranza.
Ma un altro giorno quello stage finisce: il rinnovo è scaduto, spesso con un “In bocca al lupo per tutto! Grazie, eh! E mi raccomando, dacci notizie!”.
In altri casi il lavoro prosegue con il contratto a progetto. Una manciata di euro in più, il minimo, per poterti spremere più a lungo, solo perché altrimenti costeresti troppo: a sigillo del tutto, la meravigliosa “C’è qualche possibilità in più per te, per ora però ti facciamo un contratto a progetto. Solo per qualche mese, ok?”.
È fatta! – pensi – ancora qualche mese e mi assumeranno! I miei sforzi saranno ripagati! Così nei mesi lavori sodo, esci tardi, tardissimo, stringi i denti, non importa, in fondo “c’è qualche possibilità in più per te”: e giù a fare le serate in ufficio, giù a dare il massimo in compiti spesso banali e giù a stare sempre al gioco e a sorridere.
Ma poi, un giorno, finisce il tuo contratto a progetto e le porte si chiudono: mentre con un’alzata di braccia ti mettono gentilmente alla porta, con la coda di un occhio vedi entrare dalla porta principale una persona uguale a come eri tu quasi due anni fa. Già, ti hanno usato, hanno usato proprio te, che hai tanto faticato per uscire dal mucchio. È proprio così.
Non è così che deve andare, non è così che deve andare. Noi valiamo di più del nostro impiego. Noi siamo di più del nostro impiego. Noi abbiamo altro oltre al nostro impiego.
Bene, pausa caffè finita. Cerchiamo di non fare tardi, va’.
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