Umorismo politicamente scorretto /1: humor etnico

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Come inizia una barzelletta razzista? Con quello che la racconta che si guarda alle spalle”.

L’esistenza di “razze” è non solo un’idea contestabile, ma anche detestabile. Tuttavia, l’esistenza di stereotipi diffusi sui vari gruppi etnici è qualcosa di assodato: i neri sono visti come esseri un po’ animaleschi e rozzi, ma dotati di dimensioni virili imponenti; gli ebrei sono avari; gli italiani degli opportunisti che tentano di fare i furbi alla prima occasione; i tedeschi sono cattivi; gli irlandesi alcolizzati; i giapponesi geni dell’informatica con scarsa attitudine alla socialità.

Il pregiudizio razziale non equivale al razzismo, ma è contiguo ad esso: attribuire ad un gruppo etnico o agli abitanti di una nazione una serie di caratteristiche non significa automaticamente considerarli inferiori, ma è il primo passo verso il considerarli diversi. Se poi lo stereotipo è unicamente negativo (i rom sono tutti ladruncoli), la xenofobia è implicita.

Combattere il razzismo non è una battaglia ideologica, o culturale; è una battaglia per affermare l’identità di specie umana come più fondamentale e importante di qualunque altra caratteristica. Prima di tutto, siamo tutti uomini. 
Ci sono molti modi di contrastare il razzismo sul piano dialettico, ma uno è particolarmente efficace: la sua parodia.

Come si fa a mandare in crisi esistenziale un ebreo? Basta esporre un cartello con scritto PROSCIUTTO GRATIS”.

La parodia è una forma della satira che, anziché prendere di mira direttamente ciò che vuole dileggiare, lo imita in una forma grottesca e distorta, così da evidenziarne al pubblico le contraddizioni. La parodia applicata agli stereotipi razziali, nei paesi anglosassoni è definita umorismo etnico.
Cosa distingue una battuta di umorismo etnico da un’espressione razzista? Tutto… e niente. Dal punto di vista del testo, molto spesso l’umorismo etnico è un’evidente estensione caricaturale degli stereotipi razzisti, prendiamo ad esempio la battuta:

Come fanno i cinesi a scegliere i nomi per i loro figli? Fanno cadere una monetina giù per le scale”.

In questo caso il fine umoristico è evidente, e qualunque cinese dotato di senso dell’umorismo può sorridere, anche al pensiero di come la sua lingua venga percepita da un occidentale. Altre volte tuttavia, la battuta nasconde un significato decisamente razzista e discriminatorio: un classico esempio è la seguente citazione cinematografica.

Come fai a fermare cinque negri che stanno stuprando una bianca? Lanciando loro una palla da basket”. (Full Metal Jacket)

Qual è la differenza? La differenza è quello che in teatro si chiama sottotesto, ovvero la parte implicita della battuta, quella non detta. Il sottotesto della battuta sui cinesi è che i cinesi hanno i nomi molto simili e molto assonanti, che è ovviamente uno stereotipo, ma non necessariamente offensivo. Il sottotesto apparente della battuta di Full Metal Jacket è che i neri sono degli animali dediti solo allo stupro, e a poche altre attività prettamente fisiche, il che è naturalmente un’affermazione razzista e orribile. Quindi la battuta di Full Metal Jacket è razzista? Non per forza.

Qui entra in gioco un parametro più sottile, per misurare la differenza tra humour etnico e razzismo: il contesto. La battuta di Full Metal Jacket pronunciata ad un convegno della Lega Nord è probabilmente una battuta razzista. Raccontata da un ragazzo di colore invece non lo è.

L’importanza del contesto è fondamentale per determinare il sottotesto reale, andando oltre quello apparente: il sottotesto di una battuta all’apparenza estremamente violenta e razzista può coincidere con il suo significato letterale – e allora sarà effettivamente una battuta xenofoba; ma può anche avere un significato ironico – e allora saremo di fronte ad una parodia.

Questo è particolarmente evidente quando è un membro dell’etnia oggetto di dileggio a raccontare la battuta, facendo auto-ironia (“Sono talmente convinto di essere uguale a te, che scherzo su quanto sono inferiore”), ma non è l’unico caso possibile.

Perché i messicani non vincono mai le olimpiadi? Perché tutti quelli che sanno correre, saltare o nuotare sono negli Stati Uniti”.

Personalmente, sono talmente convinto che gli uomini siano tutti uguali, che mi permetto di scherzare sull’inferiorità di praticamente qualunque etnia. Ci sono però delle regole di buona educazione che non vanno mai dimenticate: la prima è che se si fa satira su qualcuno, si accetta di subirla, anche quando gli stereotipi non si rifanno al nostro immaginario collettivo. All’estero gli italiani passano per mafiosetti e per amanti possessivi (e un po’ ci riconosciamo), ma passano anche per sporchi, che è invece uno stereotipo di cui non capisco l’origine. Ma non si può decidere che si accettano gli stereotipi altrui solo quando si confanno al nostro immaginario: se uno ricambia una battuta etnica con una battuta che gioca sulla sporcizia degli italiani, offendersi sarebbe sinonimo di disonestà intellettuale e, sotto sotto, di una certa dose di razzismo auto-represso.

La seconda regola è che non tutti capiscono l’umorismo di un certo tipo, e questo non vale solo per chi è oggetto di una battuta (anzi, mi sono sentito dare più spesso del razzista da italiani scandalizzati per una battuta sugli ebrei, che da ebrei a cui ho raccontato la stessa battuta).

È pur vero che la satira deve provocare ed offendere, per definizione, ma qui occorre ribadire un concetto importante, ovvero che l’oggetto della provocazione non coincide con l’oggetto della battuta. Pertanto, se la sensibilità di qualcuno viene urtata dall’umorismo etnico, chiunque esso sia, è opportuno scusarsi e lasciare perdere.

La terza regola è non essere fraintendibili: se voglio fare una battuta sui rumeni, deve essere spaventosamente ovvio che non ho nulla contro i rumeni. Se sono rumeno a mia volta, l’ovvietà scaturisce di per sé; se sono italiano deve esserci da parte mia sia la coscienza della sensibilità di chi mi ascolta (non solo nessuno deve offendersi, ma nessuno deve pensare che io dica sul serio), sia la consapevolezza della percezione che il mio pubblico ha di me: se tutti sanno che io sono viralmente antirazzista, nessuno potrà pensare che ci sia del razzismo dietro alla mia battuta.

“Ci sono un uomo rumeno e una donna rumena in macchina, chi guida? I carabinieri”.

L’umorismo basato sugli stereotipi etnici quindi può essere accettabile, anche quando il testo è apparentemente offensivo e razzista, purché il sottotesto (determinato da significato, contesto, pubblico e autore) sia di dileggio, e non di discriminazione. (Nell’immagine a lato qual è il sottotesto? Impossibile da definire…)

Una volta rispettate queste regole, l’umorismo razzista diventa uno splendido strumento di lotta al razzismo stesso: quando è chiaro che l’oggetto del dileggio non è l’etnia, ciò di cui si ride è l’assurdità dello stereotipo, e dell’ideologia che si colloca dietro ad esso. E non c’è niente, niente di più distruttivo di una risata per mostrare la pochezza, l’idiozia, l’ignoranza e la povertà umana su cui si fonda qualunque ideologia discriminatoria: ridere dell’assurdità degli stereotipi razzisti e smontarli completamente, proprio come il bambino della favola rideva del vestito nuovo dell’imperatore, facendo realizzare a tutti che era nudo.
Il razzismo sarà sconfitto quando tutti potremo fare battute come:

“Perché i negri corrono veloci? Perché quelli lenti sono già tutti in galera”.

e nessuno si sentirà offeso, perché la semplice idea che qualcuno possa pensare una cosa del genere sembrerà assurda a tutti. A proposito, sapete perché l’Italia è a forma di stivale? Perché tutta quella merda non entrava in una scarpetta da tennis.

Luca Romano
@twitTagli

Leggi anche l’articolo di risposta: LE SCAPPATOIE RETORICHE, IL RAZZISMO LATENTE E LA DISONESTÀ INTELLETTUALE ISTITUZIONALIZZATA

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