Tutto quello che vi hanno detto sulla crisi greca è falso

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La storia della crisi greca, così come ci è stata raccontata, narra di un Paese scialacquatore, che, dopo aver vissuto per anni al di sopra dei propri mezzi, avrebbe dilapidato irresponsabilmente tutto il suo denaro facendo aumentare il debito pubblico. In suo soccorso sarebbe poi arrivato un gruppo di nazioni virtuose, alla cui testa c’era la paziente Germania, che lo avrebbe salvato dal fallimento grazie a generose misure assistenziali. In cambio degli aiuti, la Grecia avrebbe infine accettato dei sacrifici ragionevoli, tenendo conto del recente periodo di baldoria, per redimersi dalla proprie colpe.
È una storia semplice e, come tutte le storie semplici, non è priva di fascino. Richiama alla mente stereotipi culturali (i pigroni mediterranei contro gli operosi nordeuropei) e complessi di colpa (non sarò certo il primo a dirvi che schuld in tedesco significa sia “debito” sia “colpa”).

La realtà però è ben diversa. Gli aiuti concessi alla Grecia sono infatti serviti per salvare le banche francesi e tedesche.
Non solo: quegli aiuti adesso pesano sulle tasche dei contribuenti europei, italiani compresi.

 

IL MERCANTILISMO TEDESCO
A sostenere questa tesi non è il gazzettino di un circolo di comunisti scalcagnati, ma Il Sole 24 Ore, che in un articolo del 15 giugno 2011 esplicitava il concetto fin dal titolo: “Salvare la Grecia vuol dire salvare le banche francesi e tedesche (e l’euro)”.
Le banche tedesche, che detenevano circa 15,3 miliardi di debito pubblico greco (un terzo in più di quelle francesi), avrebbero infatti perso tutto il loro denaro in caso di un fallimento ellenico.

Le cifre qui menzionate sono, però, appena noccioline. La posta in palio era decisamente più sostanziosa. Dall’entrata in vigore dell’euro, le banche tedesche si sono rese protagoniste di «comportamenti incauti e dissennati» (sempre parole de Il Sole 24 Ore), allettate dai vantaggiosi tassi di interesse dei Paesi mediterranei. Per anni, erogare prestiti a un cittadino greco è stato infatti molto più conveniente che erogarli a un cittadino tedesco. [1] 
Stando a dati della Banca dei Regolamenti Internazionali, citati da Bloomberg, nel 2009 le banche tedesche avevano raggiunto un’esposizione verso Grecia, Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda pari a 704 miliardi di dollari, una cifra di gran lunga superiore al loro capitale. «In altre parole, hanno prestato molto più di quanto potevano permettersi».

Approfittando della credibilità che l’euro aveva conferito all’economia greca, nonostante le debolezze che questa presentava, e del fatto che, sempre grazie all’euro, fossero stati aboliti il rischio delle svalutazioni e delle fluttuazioni di cambio, le banche tedesche hanno inondato di denaro la Grecia e gli altri Piigs.
Lo scopo? Far sì che i popoli del Sud Europa acquistassero merci tedesche.
Si tratta di una strategia che gli americani chiamano vendor-financing: io ti vendo un prodotto, ma, visto che non hai i soldi per comprarlo, te ne finanzio l’acquisto con un prestito.

La strategia economica della banche tedesche era d’altronde coerente con i piani politici di Berlino. Infatti, l’ingresso nell’euro di un Paese debole come la Grecia è stato, a suo modo, un capolavoro politico della Germania.
Come ha anche ammesso l’ex ministro delle finanze Vincenzo Visco, un’unione monetaria con le nazioni mediterranee serviva alla Germania per almeno due motivi:

«1) perché l’ingresso di paesi “deboli” avrebbe contribuito a rendere l’euro più debole di quanto fosse il marco, promuovendo le esportazioni tedesche, e:
2) perché l’integrazione finanziaria permetteva alle banche del Nord di finanziare l’acquisto di beni del Nord da parte dei cittadini del Sud».

La strategia, però, aveva un punto debole: la crescita dell’economia tedesca era di fatto sostenuta dai debiti degli altri. Nessuno, però, si preoccupò troppo della voragine di debiti privati verso l’estero che si stava aprendo in Grecia e della possibilità che i greci non fossero in grado di rimborsarli.
Uno studio del 2002, scritto da due influenti economisti, Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi, giustificava le scelte della grande finanza mitteleuropea.
Secondo loro, l’indebitamento verso l’estero era un segnale positivo, indice di una maggiore integrazione tra i mercati europei, e a poco a poco le nazioni periferiche avrebbero registrato miglioramenti nella produttività del lavoro e nel reddito.
Le cose, però, non sembravano andare così. Nel 2006 Blanchard, di fronte ai dati economici contrastanti, parve tornare sui propri passi. [2]

 

SALVARE LE BANCHE
Con il sopraggiungere della crisi, l’incantesimo creato dalla finanza tedesca svanì. Un default della Grecia metteva a rischio gli investimenti delle banche, dato che difficilmente sarebbero riuscite a ritornare in possesso dei loro crediti ridenominati in una nuova e assai debole valuta greca.
Tuttavia, le banche tedesche, con la complicità delle istituzioni europee e del Fondo Monetario Internazionale, erano pronte a una nuova illusionistica magia per recuperare il loro denaro.
Il meccanismo è ben descritto in due articoli, uno del Corriere della Sera e l’altro di Bloomberg, che spiegano come molti dei fondi dell’Ue e del Fmi destinati alla ricapitalizzazione delle banche elleniche siano stati impiegati per rimborsare i creditori esteri, tra cui le banche tedesche. 
L’effetto, così, è stato quello di scaricare il peso degli investimenti a rischio della finanza germanica nelle tasche degli inconsapevoli contribuenti europei. «Prima i creditori più esposti erano le banche, adesso sono i bilanci pubblici nazionali», che sono passati – scrive Il Corriere della Sera – «da un saldo nullo alla fine del 2009 a un credito di 204 miliardi di euro nel settembre del 2014. Nello stesso periodo, invece, l’alta finanza delle grandi banche ha seguito la direzione opposta: il suo credito è sceso da 153 a 18 miliardi di euro, con un calo dell’88%».

Detto in altri termini: se prima sarebbero state le banche a pagare in caso di fallimento della Grecia, ora sarebbero gli Stati nazionali a farlo (l’Italia perderebbe circa 40 miliardi), cioè noi.

A smentire la favoletta di un magnanimo salvataggio europeo per pagare gli stipendi agli indolenti impiegati pubblici greci è anche uno studio pubblicato sul portale Macropolis dall’economista greco Yiannis Mouzakis, che dimostra come appena l’11% degli “aiuti” concessi dalla Troika fra il maggio 2010 e l’estate del 2014 siano stati usati per coprire le spese dello Stato.
Il resto è soprattutto transitato, direttamente o indirettamente, nei forzieri della finanza nazionale ed estera.
Questa ricostruzione trova numerose conferme nelle testimonianze di chi ha assistito da vicino al bailout (salvataggio) della Grecia.
Peter Bofinger, consigliere economico del governo tedesco, nel 2011 dichiarava che l’erogazione degli aiuti «non riguarda tanto i problemi della Grecia quanto quelli delle nostre banche, che possiedono molti crediti nei confronti del paese».

La stessa argomentazione era stata sostenuta un anno prima dall’ex capo della Bundesbank Otto Pöhl in un’intervista allo Spiegel: «Si trattava di proteggere le banche tedesche, ma soprattutto le banche francesi, dalla cancellazione del debito greco. Lo stesso giorno in cui il pacchetto di salvataggio è stato approvato, le azioni delle banche francesi sono salite del 24 per cento. Guardate bene, e potrete vedere cosa era realmente in gioco – vale a dire, salvare le banche e salvare i greci ricchi».
Inoltre, come si può leggere nei riservatissimi verbali del Fondo Monetario Internazionale pubblicati dal Wall Street Journal, più di quaranta Paesi si opposero nella riunione del 9 maggio 2010 al piano di salvataggio della Grecia proprio perché «concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del Vecchio Continente, e non la Grecia».

Come fa notare Bloomberg, forse è questo il motivo per cui molti esponenti del governo tedesco affermano che l’area euro è più preparata oggi che in passato ad affrontare un default greco: perché, nel frattempo, le scommesse accumulate dalle banche sono state accollate ai cittadini. 
Il risvolto tragicamente ironico della faccenda è che la stragrande maggioranza degli elettori tedeschi si è ormai persuasa di aver sborsato fin troppo per aiutare le “cicale” greche.
In realtà, hanno pagato per coprire le puntate a rischio delle loro banche, i cui investimenti d’azzardo sono stati per di più distribuiti tra tutti gli abitanti dell’eurozona. 

Suonano dunque paradossali e ingiuriosi i reiterati rimproveri paternalistici della Germania nei confronti dei Paesi mediterranei, come se sia in qualche modo possibile che questi ultimi si siano indebitati senza che le banche tedesche siano state così imprudenti da prestar loro denaro.
Anzi, nessuna nazione più della Germania ha tratto benefici dalla moneta unica, passando (a spese altrui) nel giro di circa di un decennio dalla condizione di “malato d’Europa” a quella di locomotiva del continente.

 

LA GRANDE SBORNIA DELLA FINANZA TEDESCA
È il 23 maggio 2013 e siamo ad Atene. Il vicepresidente della Banca Centrale Europea Vítor Constâncio si trova nella sede della Banca di Grecia per partecipare a una conferenza.
Il suo discorso sembra quello di un rivoluzionario e forse anche per questo è stato scarsamente riportato su giornali e tv.

No, la crisi economica in Europa non è stata provocata dall’eccessivo aumento del debito pubblico, chiarifica il vicepresidente della Bce. Anzi, nei primi anni dell’euro il debito pubblico era persino diminuito in molti dei cosiddetti Piigs ed è cresciuto soltanto durante la recessione, a causa del crollo delle entrate fiscali, delle spese per la protezione sociale dei lavoratori e degli aiuti al sistema bancario.

La vera causa della crisi è il debito privato: le banche dell’Europa centrale hanno prestato troppo denaro ai Paesi periferici, provocando squilibri divenuti poi insostenibili.
La portata dell’intervento di Constâncio è immensa perché smonta la principale narrativa della crisi, secondo cui la colpa di tutte le nostre disgrazie sarebbe del debito pubblico (cioè, le spese sostenute dagli Stati per il welfare state, dalla sanità alle pensioni), attribuendo invece gravi responsabilità al sistema finanziario e alle banche in particolare, ree di aver provocato l’esplosione di una bolla del debito.
La finanza germanica era in prima fila in questa sbornia collettiva che è seguita all’ingresso nell’euro. Nel 2012 l’esposizione delle banche tedesche verso i Paesi periferici equivaleva a quasi un ottavo del Pil annuale dell’intera Germania.

Così, quando nel 2012 si cominciò a discutere di un piano di salvataggio europeo per le banche spagnole (poi assistite con un’iniezione di circa 41 miliardi di euro, pressappoco la somma dovuta dalle banche iberiche alle loro omologhe tedesche), la Germania, come avvenuto due anni prima per la Grecia, era particolarmente interessata al buon esito dell’operazione.
Lo rivelava Reuters in un articolo pubblicato in quel periodo: «Un salvataggio delle banche spagnole – sostenuto inizialmente dai contribuenti spagnoli e in seguito probabilmente dal Meccanismo Europeo di Stabilità – assicurerà ai creditori di non subire perdite, rendendolo di fatto un salvataggio nascosto degli incauti prestatori tedeschi».
Tuttavia sono decenni che «contando sul sostegno delle garanzie statali le banche pubbliche tedesche si avventurano in investimenti rischiosi e si ritrovano impantanate in tutte le crisi finanziarie, fin da quella del debito dell’America latina all’inizio degli anni 80, ai subprime, alla Grecia», si legge sul Sole 24 Ore.

Non a caso, il governo di Berlino, fra tutti quelli dell’eurozona, è quello che ha stanziato più soldi pubblici per salvare le banche nazionali dalle sofferenze provocate dalla crisi finanziaria, mettendo a disposizione addirittura 646 miliardi, circa il 25% del Pil.
Solo alla Hypo Real Estate, affondata nella crisi dei mutui spazzatura americani, lo Stato tedesco ha versato aiuti per quasi 140 miliardi di euro.
Come osservava Newsweek nei primi mesi dallo scoppio della crisi negli Stati Uniti, le banche tedesche erano state infatti fra le più aggressive nel gettarsi a capofitto in aree d’investimento ad alto rischio, come i titoli tossici americani.

Clamorosamente emblematico è il caso della Taunus Corportation, controllata della Deutsche Bank e ottavo gruppo bancario americano, che nel 2008 è stata salvata dal governo degli Stati Uniti con aiuti pari a 66 miliardi di dollari erogati dalla Federal Reserve di New York.
Dal New York Times  apprendiamo infatti che Taunus è stata salvata perché «era semplicemente troppo grande e troppo intrecciata con il sistema finanziario americano per fallire».
Nel 2012 la Deutsche Bank ha opportunamente cambiato la struttura legale di Taunus per evitare di rispettare i requisiti minimi di capitalizzazione previsti dal Dodd-Frank Act, la legge approvata dal Congresso per tentare di regolamentare i mercati finanziari all’indomani del tracollo di Wall Street.

La mossa non è stata molto apprezzata negli Stati Uniti. Già nel novembre del 2011 Bloomberg esigeva che la Deutsche Bank o, se necessario, lo stesso governo della Germania immettessero liquidità in Taunus, visto che Deutsche Bank (una delle banche più grandi del mondo, giova ricordarlo), aveva ricevuto fin troppa assistenza dalla Federal Reserve, come gli 11,8 miliardi di dollari per il bailout di Aig.

Il colosso tedesco è così finito nel mirino delle autorità di controllo americane: nel 2013, ad esempio, Thomas Hoening, vicepresidente della Fdic, un’agenzia governativa preposta alla vigilanza del circuito bancario, definì la Deutsche Bank «orribilmente sottocapitalizzata», tanto da non avere «alcun margine di errore». Nello stesso anno la Fed di New York giudicò i report finanziari stilati da Db «di bassa qualità, inaccurati e inaffidabili».

Ma questo è solo un assaggio dell’enormità di scandali che in questi anni hanno coinvolto Deutsche Bank. Ricordiamone qualcuno:

  • nel 2011 è stata condannata a pagare una multa di 145 milioni di dollari per aver effettuato operazioni ad alto di rischio sui mutui spazzatura americani nel periodo antecedente all’esplosione della crisi;
  • nel dicembre del 2012, nella sede centrale di Francoforte, si è svolta una perquisizione in grande stile delle autorità tedesche, che hanno sguinzagliato 500 uomini tra poliziotti e ispettori delle tasse. Cinque impiegati sono stati arrestati con l’accusa di evasione fiscale, truffa, riciclaggio e ostruzione alla giustizia; 
  • a marzo Db ha fallito gli stress test della Fed, a causa di «ampie e sostanziali debolezze» nei piani di capitale;
  • a maggio ha patteggiato una multa di 55 milioni di dollari con la Sec (l’ente americano che si occupa della vigilanza della borsa), che l’aveva accusata di aver nascosto nei bilanci perdite nominali superiori al miliardo e mezzo di dollari fra il 2008 e il 2009. Le indagini erano partite dalla denuncia di almeno due ex dipendenti della banca, secondo i quali il fine dei trucchi contabili, da loro stimati in 12 miliardi di dollari, era di evitare che Deutsche Bank fosse nazionalizzata dal governo tedesco;
  • ad aprile è stata condannata a pagare un’ammenda da 2,5 miliardi di dollari (una pena insufficiente secondo diversi osservatori, come il Commissario della Sec) per aver partecipato, insieme ad altri giganti della finanza mondiale, alla più grande truffa criminale della storia: la manipolazione del Libor, il tasso d’interesse interbancario attorno al quale ruotano i mutui stipulati dalle famiglie, i fidi bancari alle imprese, i prestiti ai consumatori, scambi finanziari di ogni genere e persino la contabilità dei bilanci degli Stati.
    In cambio della frode sui tassi, i trader internazionali si promettevano a vicenda Ferrari, bustarelle e bottiglie di champagne. Se siete tra quelli che si adirano per la bufala dei 30 euro giornalieri donati dallo Stato ai migranti, magari dovreste rivedere l’ordine delle priorità nella vostra personalissima scala dell’indignazione;
  • e per non farsi mancare proprio nulla, negli Stati Uniti Db è persino sotto indagine per aver violato le sanzioni poste nei confronti di alcuni Paesi, come l’Iran.

Ci sarà quindi un motivo se nell’agosto del 2013 il New York Times incominciava un articolo definendo il sistema bancario tedesco come «uno dei più malconci d’Europa», con «una storia di cattiva gestione, corruzione e prestiti connessi alla politica»?
O se, prima della crisi, fra i trader di Wall Street i banchieri tedeschi erano soprannominati “gli idioti di Düsseldorf”, perché erano i principali acquirenti dei titoli spazzatura?
O, ancora, se sulla prestigiosa rivista Forbes si parla di Deutsche Bank come di una banca «che non sa quello che fa» e che «somiglia molto all’archetipo della banca-zombie troppo grande per fallire», vista anche la montagna di derivati conservati nella sua pancia, circa 54,7 trilioni di euro, cioè 20 volte il Pil tedesco?

Alla luce di tutto ciò, sarebbe interessante sapere per quale motivo, se la crisi della Grecia è stata causata dal debito privato, come ha ammesso lo stesso vicepresidente della Bce, dovrebbero essere i bilanci pubblici a subire misure di austerità.
E sarebbe altrettanto bello se ci spiegassero perché dovrebbero essere i cittadini greci a pagare i costi della crisi con tagli a stipendi, pensioni, servizi, e con nuove tasse, se fra gli artefici della bolla del debito non solo in Grecia, ma anche in Spagna, vi sono le banche tedesche.
E poi vorremo capire dall’alto di quale superiorità morale la Germania pretende sacrifici dai Paesi mediterranei se contemporaneamente le sue banche sono state salvate con i soldi dei contribuenti europei e americani.
Anzi, la Germania è esattamente il prototipo del Paese che non onora i suoi debiti, visto che dopo la Prima guerra mondiale smise di pagarli in quanto insostenibili, e dopo la Seconda le furono condonati dagli Alleati perché potesse rilanciare la sua economia.

Nel 2013 è stata avviata una riforma del sistema finanziario tedesco per minimizzare i rischi che pesano sui contribuenti e sullo Stato, ma i problemi permangono.
Ad esempio, il 45% del settore bancario tedesco è in mano pubblica (come le Landesbanken, le più attive nell’investire in titoli tossici americani), il che lo pone, in maniera anomala e potenzialmente dannosa per gli altri Paesi europei, «in stretta sinergia con gli obiettivi di finanza pubblica del governo centrale». 
«Le banche regionali e municipali, gestite dai politici locali e di proprietà dello Stato, rimangono una fonte di finanziamento per progetti locali, e sono costantemente al centro di reti di corruzione di cui beneficiano tutti i maggiori partiti tedeschi», aggiunge l’Huffington Post.
Proprio per scongiurare di svelare l’opacità del suo sistema bancario, racconta La Repubblica, la Germania ha fatto di tutto per rallentare la nascita di un’unione bancaria europea.

E l’Europa che fa? Poco o nulla visto che la Germania si è oculatamente impossessata di tutti i posti chiave collegati al settore bancario in seno all’Ue:

  • la Banca Europea degli Investimenti è guidata dal tedesco Werner Hoyer, ex sottosegretario agli esteri del governo Merkel; 
  • il direttore del Fondo Salva Stati e del Meccanismo Europeo di Stabilità è l’economista tedesco Klaus Regling, in passato consigliere di Angela Merkel
  • il presidente del Comitato di risoluzione unico (incaricato di operare in caso di fallimenti bancari) è la tedesca Else König; 
  • e il vicepresidente del Meccanismo di supervisione unico delle banche è la tedesca Sabine Lautenschlager, ex numero due della Bundesbank e vicinissima alle posizioni della cancelliera Merkel e del suo ministro delle finanze Wolfgang Schäeuble.

Non è meravigliosa l’Unione Europea?

 

IL POPOLO GRECO PAGA E I COLPEVOLI RESTANO IMPUNITI
Le misure di austerità della Troika, rigidamente applicate in Grecia tra il 2010 e il 2014 in una sorta di commissariamento del Paese da parte dell’Ue, si sono accanite su un popolo che è tutt’altro che indolente e spendaccione, come ha dimostrato nel 2011 l’economista Vladimiro Giacchè, smontando, numeri alla mano, le favolette propagandistiche dei media (scopriamo, ad esempio, che i greci lavorano più dei tedeschi, vanno in pensione dopo di loro e hanno una spesa pubblica inferiore. L’articolo completo è disponibile qui).
L’esito delle famigerate “riforme strutturali” volute dall’Europa è stato rovinoso e ha provocato una catastrofe umanitaria:

  • dal 2009 a oggi il Pil è crollato del 25%;
  • il rapporto debito pubblico/PIL è salito al 185% (nel 2014);
  • la disoccupazione totale è al 27%;
  • quella giovanile al 60%;
  • 1.200.000 persone hanno perso il lavoro dal 2009 a oggi;
  • il 30% delle attività imprenditoriali ha chiuso i battenti dal 2009 a oggi;
  • i salari sono diminuiti del 40% rispetto al 2009;
  • le pensioni si sono dimezzate rispetto al 2009;
  • la povertà è raddoppiata rispetto al 2009;
  • il tasso di povertà infantile è del 41%;
  • rispetto al 2009 il 250% in più delle famiglie vive senza corrente elettrica;
  • il 56% della ricchezza è posseduta dal 10% della popolazione.

Eppure, in questi anni, la Grecia ha continuato a comprare armi. Nel 2010 il Wall Street Journal collocava il piccolo paese balcanico, da sempre timoroso di un conflitto con la Turchia, al primo posto in Europa e al quinto nel mondo nella classifica degli importatori di armi convenzionali.
Il principale beneficiario della gigantesca spesa militare ellenica (che cinque anni fa equivaleva al 3% del Pil) era – guarda un po’ – proprio la Germania.
All’inizio del 2012 il settimanale tedesco Die Ziet, citando fonti confidenziali, rivelava che persino nelle settimane che condussero al salvataggio greco il ministro degli esteri Westerwelle avesse richiesto un impegno al governo di Atene per l’acquisto di una commessa di aerei Eurofighter, prodotti dall’allora Eads (ora Airbus Group), di cui è azionista anche la tedesca Daimler.
Nel 2010 la Grecia importò dalla Germania, per un valore complessivo di 403 milioni di euro, 223 Panzer e un sottomarino.
Inoltre, «giornali spagnoli e tedeschi hanno diffuso il rumor secondo cui Angela Merkel e Nikolas Sarkozy, durante un meeting in ottobre con il presidente Papandreu, gli avrebbero ricordato di completare gli ordini di armi aperti ed esortato a farne di nuovi», riportava il settimanale. 
I diretti interessati hanno smentito, ma – aggiunge Die Ziet – bisogna tenere presente che in Germania l’industria bellica ha ottimi rapporti con il governo.

Nel 2013, poi, l’ex capo della direzione armamenti del ministero della difesa greco, Antonis Kantà, ha raccontato di aver ricevuto una mazzetta di 1,7 milioni di euro dall’azienda tedesca Krauss-Maffei Wegmann per non opporsi all’acquisto di 170 carri armati Leopard 2A6 Hel. La compagnia ha negato.
Ad ogni modo, si tratta del secondo grande scandalo tra Atene e Berlino dopo quello della Siemens nel 2004, quando l’azienda tedesca ammise di aver effettuato 1,3 miliardi di pagamenti in nero per vincere appalti e commesse in occasione delle Olimpiadi.

Le spese militari hanno concorso in buona misura ad accrescere il debito pubblico greco, che comunque era già elevato prima dell’ingresso nell’eurozona (infatti la banca d’affari americana Goldman Sachs stipulò un accordo con il governo di Atene e ne truccò i conti pubblici perché il Paese riuscisse a rispettare i parametri di Bruxelles).
In questa sporca storia della crisi greca, tuttavia, non sono né i corrotti né i corruttori a pagare il prezzo dei danni apportati alla più antica democrazia europea, né tanto meno le banche che hanno gonfiato la bolla del debito, né i funzionari di Bruxelles e le cancellerie europee che hanno imposto un’austerità criminale, né infine i greci ricchi, come gli armatori, che per Costituzione godono di un’esenzione fiscale pressoché totale e possono permettersi di spostare la loro attività all’estero se al governo venisse anche solo in mente di tassarne i profitti.

No, a pagare è un intero popolo, che nel giro di pochi anni ha patito sulla sua pelle gli effetti di una vera e propria guerra: la guerra della finanza alla classe media, ai lavoratori e alle future generazioni.

Jacopo Di Miceli 

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[1] Alberto Bagnai, Le aporie del più Europa, in Oltre l’austerità (a cura di S. Cesaratto e M. Pivetti), Micromega 2012, www.micromega.net, p. 44.
[2] Emiliano Brancaccio, Marco Passarella, L’austerità è di destra, Il Saggiatore, Milano 2012, pp. 32-33.

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