Tre mesi di Indonesia: diario di un altro mondo

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Ohi amore! Lo sai che ho mandato un curriculum per lavorare in Indonesia?!” Tutto è cominciato così, con gli occhi increduli della mia compagna che chiedevano spiegazioni.
C’era poco da dire in fondo.
Sentivo l’esigenza di scappare per qualche mese da questo Paese, di inserirmi in una realtà completamente diversa, di conoscere nuove storie e nuove culture e, non ultimo, di capire come funzionava il mondo del lavoro per un giovane neolaureto al di fuori della fastidiosa nicchia italiana.
Il mio compito laggiù? Insegnare inglese nelle scuole superiori di Sukabumi, isola di Java.

Il 5 ottobre arriva l’e-mail di conferma: abile e arruolato, mi aspettano a Giacarta – “Madonna mi hanno preso! Incredibile! Si parte!
Ora mi aspettava un sacco di tempo per pensare. Dovevo tenermi impegnato per quasi venti ore di viaggio e io sull’aereo non riesco proprio a dormire.
Ma il problema di come passare il tempo si è risolto da solo, dal momento che anche in Economy la scelta di film è ampia. Atterrato a Dubai non avevo partorito ancora nessuna conclusione. Ma niente panico. C’è tutto il tratto Dubai–Giacarta.

Per fortuna i film li avevo già visti tutti quindi potevo iniziare a preoccuparmi, a pormi mille domande, a cercare di capire se avessi fatto la scelta giusta o meno.
Tutti mi hanno sempre detto che ero bravo ad adattarmi alle situazioni, che potevo stare in compagnia di chiunque, che non mi facevo problemi e non ero troppo schizzinoso per quanto riguarda il pranzo e la cena (dato non secondario se dovete affrontare un viaggio in Indonesia).
Benissimo. Era giunto il momento di mettermi alla prova. Scarsa conclusione se paragonata al tempo che ho avuto per rifletterci su. Ma non sapevo proprio cosa pensare, ero solo impaziente di buttarmi a pesce in questa esperienza.

Atterrato a Giacarta mi aspettava Domo, un omino sorridente e disponibileMr. Matteo, are you ready? I’m your driver. Now we have to go in Sukabumi and we will spend four hours by car”.
Il mio primo pensiero è stato: “Driver? Mr.? Ma che figata!” Il secondo invece è stato più drammatico: “Sono sopravvissuto a sedici ore di volo e ora morirò per quattro ore di macchina!?
Sì, perché da quelle parti guidano come dei pazzi, le strade sono piene di buchi, esiste un solo tratto autostradale, i motorini stracolmi di passeggeri ti sorpassano a sinistra, a destra e dall’alto e tutti pare che abbiano una gran fretta.
Però ridono. Ridono sempre. Se ti fermi ad un semaforo a Torino o a Palermo la gente si scaccola oppure ha un’aria aggrottata e infastidita. Lì ridono.
Rischiano la vita ma la prendono bene.

La seconda grande differenza la scopro quando arrivo nella mia stanza: la doccia? Un catino con una bacinella. Come funziona? Riempi il catino d’acqua e te la butti addosso usando la bacinella.
Un po’ difficile all’inizio prendere confidenza con questo sistema (e non allagare tutta la casa) ma poi ho scoperto la gioia di svegliarmi e gettarmi in faccia secchiate d’acqua.

Poi arrivò lui. Il capo. Mister Ferry. Una persona eccezionale. Un piccolo imprenditore che vorrebbe cambiare il sistema indonesiano passando dall’educazione delle nuove generazioni.
Un uomo che ha conosciuto la fame ma che ora, grazie ad un enorme coraggio, si è risollevato. Il suo obiettivo era chiaro: tu insegni inglese ma lo fai con un metodo alternativo. Gli studenti si devono divertire, solo in questo modo l’istruzione è davvero efficace. Ferry ci vede lungo.

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Inizia così la mia collaborazione con persone che non scorderò mai. I primi contatti sono stati con i presidi delle scuole dove avrei dovuto insegnare: Dzaky, il gigante indonesiano. Lì sono tutti bassi ma lui era altissimo.
Era il preside di una scuola ricchissima, di forte impronta musulmana ed esclusivamente maschile. Un uomo molto carismatico e molto generoso. Mi ha persino regalato due Batik (l’abito formale indonesiano) appena una settimana dopo il mio arrivo.
Nella sua scuola (Hayattn Toyba Islamic Boarding school) mi sono trovato benissimo. I due docenti di inglese, Riky ed Asep, mi hanno sempre appoggiato e gli studenti erano eccezionali.
Ragazzi di sedici e diciassette anni con le idee chiarissime sul loro futuro. Dio, famiglia, lavoro: ecco le loro priorità. Provate a leggerle al contrario e ne esce l’identikit dell’italiano medio.
Insegnare in quella scuola è stato piacevole e stimolante.

E poi Igbal, detto lo stregone, preside di Pelita SMK. Lui era più alla mano e gestiva una scuola professionale mista. Durante il tempo libero, riceveva nel suo ufficio di bamboo persone con problemi di salute che chiedevano di cacciare gli spiriti maligni dal loro corpo.
Nella sua scuola, religione, magia e cultura si intrecciavano fino a non capire dove iniziava l’una e dove finiva l’altra. Ho imparato tanto da loro. Ora so come si legge il Corano, so cosa vuol dire alzarsi alle quattro di notte per pregare, e so benissimo che le donne musulmane non devono essere toccate.
Proprio così. L’ho imparato dalla nostra prima foto di gruppo. Noi italiani abbracciamo tutti per fare i simpatici quando ci mettiamo in posa: la risposta di Tia, docente di design, è stata lapidaria: “Non mi puoi abbracciare, non sono tua moglie”. Il ragionamento non fa una piega.
Dopo le scuse, tra le risate generali, siamo tornati amici come prima. Ora però sapevo come comportarmi.

862953_10200751865461712_1164726083_nMr. Igbal aveva un fratello più giovane. Ihsan, preside di Pelita SMA, altra scuola mista. Lì insegnare non era solo piacevole, era meraviglioso.
Una delle docenti di inglese era stata la vincitrice di un concorso di bellezza: insegnavo con Miss Indonesia. Non credo che capiti in tanti altri posti al mondo.

Poi ho conosciuto altre persone incredibili come Endin (il guardiano del residence dove vivevo) e tutta la sua famiglia. Un uomo basso e muscoloso, all’apparenza rude e insensibile, ma è stato l’unico a versare fiumi di lacrime quando sono tornato in Italia.
Riksan, il dj della radio di Stato indonesiana dove ero ospite fisso una volta a settimana (ma dove ti capita?! II atto).
Nenen, Tia, Fakur, Gilan e Koko persone dalla generosità incondizionata, amici che porto nel cuore con i quali ho festeggiato il capodanno.

Sono stati tre mesi intensi, faticosi ed a tratti interminabili. Il popolo indonesiano è un popolo eccezionale. Sorridente, accogliente, aperto e disponibile. Tra un bala-bala (una specie di frittata con le zucchine), un nasigoreng (riso fritto) ed un kopi luwak (il caffè che la Litizzetto ha reso famoso anche da noi) le giornate passavano tranquille.
Sotto i diluvi, ma tranquille.

Ora sono tornato in Italia: mentre scrivo queste righe mi sto sorbendo la campagna elettorale per le politiche 2013. Tra un Grillo urlante, un Berlusconi ormai al ridicolo, un Bersani davvero in bianco e nero e un Monti inceppato a volte ripenso a Sukabumi e mi chiedo cosa penserebbero loro di tutto questo.
Igbal, facci la magia e liberaci dal male.
Amen.

Matteo Graziana
@twitTagli

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