
Quale lezione dobbiamo trarre dai Panama Papers?
Un piccolo insegnamento indiretto ci arriva da un bell’articolo di Nadia Urbinati su Repubblica del 6 aprile, in cui le trasformazioni sociali dell’economia dal dopoguerra a oggi sono inquadrate all’interno di una prospettiva poco esplorata nel dibattito di tutti i giorni: quella delle frontiere.
«Le frontiere hanno consentito il riformismo sociale e la costruzione delle democrazie. In sostanza hanno reso possibile il compromesso tra capitalismo e democrazia, per cui chi possedeva i mezzi di produzione ha accettato istituzioni politiche nelle quali le decisioni erano prese contando i voti di tutti».
Gli Stati nazionali, perciò, sono sempre stati nell’ultimo Novecento il terreno di scontro e poi di incontro fra gli interessi divergenti e spesso contrapposti della classi alte e delle classi basse. La democrazia rappresentativa è stata dunque la più grande conquista delle classi subalterne negli ultimi secoli, dal momento che, grazie al principio “una testa, un voto”, esse sono riuscite con la mera forza numerica a ottenere diritti impensabili anche solo alla fine dell’Ottocento (come il sistema di welfare universale).
Con il tramonto della Guerra Fredda ed evaporato, di conseguenza, il timore della diffusione del comunismo in Occidente – spauracchio che ha in buona parte contribuito a molte delle concessioni economiche guadagnate dai movimenti dei lavoratori nel trentennio ’45-’75 – la globalizzazione ha spalancato le porte prima sigillate delle frontiere. Fiumi di denaro hanno così cominciato a circolare da un capo all’altro del mondo. Al tempo stesso, però, si sono rotti gli equilibri tra capitale e lavoro, e quindi tra capitalismo e democrazia.
Infatti, mentre i grandi possessori di ricchezza, assistiti da consulenti come la Mossack Fonseca dei Panama Papers, esportano capitali all’estero servendosi di artifici tanto diabolici quanto legali (e a ben guardare è questo il vero scandalo della vicenda: l’ampio margine di legalità offerto all’elusione e all’evasione fiscale), la classe media continua a rimanere ingabbiata all’interno dei confini nazionali.
Perché, se il linguaggio del denaro è universale e non conosce frontiere, altrettanto non si può dire per quelle frontiere linguistiche che ancora costituiscono una barriera per la maggior parte delle persone.
Insomma, parafrasando Marx, non sono stati i proletari di tutto il mondo a unirsi, ma i capitalisti, che hanno in questo modo formato una classe transnazionale compattata da obiettivi comuni e, talora, come mostrano i leak di documenti, persino dalla volontà di ergersi al di sopra delle leggi degli Stati nazionali, ormai impotenti di fronte allo strapotere di una finanza mondializzata.
Con la globalizzazione, quindi, come ben espone Urbinati, «il lavoro sta tornando poco a poco ad essere semplicemente fatica, dissociato dai diritti e dall’emancipazione politica».
E se tornassimo alle frontiere ma per i capitali, così da limitarne la libera circolazione?
Jacopo Di Miceli
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