Tiziana Cantone: un suicidio per denegata giustizia?

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“Mio generale, morte ai cretini”. 
“Caro amico, il suo programma è troppo ambizioso”.
(Charles De Gaulle)

La vicenda di Tiziana Cantone, morta suicida dopo la diffusione di un filmato pornografico che la riguardava, è estremamente complessa per essere liquidata in un solo ragionamento. Ci sono elementi inarrestabili (la virulenza della massa anonima), sfacciate giravolte (i giornali più o meno autorevoli che prima hanno raggranellato click gonfiando la vicenda e ora li raggranellano stracciandosi le vesti), una stupidità di fondo che – ora non si può scrivere, ma tutti siamo concordi – prima di tutto va ascritta, dispiace, alla vittima. Più un sacco di altri fattori, inutili all’atto pratico da analizzare: tutto il can can ora in piedi è autoreferenziale e finalizzato ad aumentare il proprio credito sociale sulla pelle della vittima.

Dalla digestione collettiva della notizia si possono trarre dunque pochi spunti originali e definitivi, e ancor meno spunti pratici: lasceranno poche tracce i mea culpa, e ancor meno segno lasceranno i facili j’accuse, declinati e diluiti nella melassa di luoghi comuni (tali anche quando solcano i mari del politicamente corretto). 
Gli articoli sdegnati raggiungeranno al massimo l’obiettivo più terreno: aumentare il traffico di questo o quel sito internet, e come ha scritto Irene Moccia in questo post pubblicato dalla nostra pagina Facebook l’intero coacervo di analisi può essere sintetizzato in un sostantivo: banalità.
Per tentare di utilizzare la vicenda in modo produttivo, anziché prodursi in lutulente articolesse e imbastire fantasiosi programmi di miglioramento della società (“Caro amico, il suo programma è troppo ambizioso”, appunto), vorrei portare l’attenzione su due aspetti rimasti finora un po’ sottotraccia: la burocrazia e i 20.000 euro.

Con “burocrazia” intendo la difficoltà di farsi ascoltare da aziende medio-grandi: è difficile spiegare le proprie ragioni a colossi come Facebook, Whatsapp, Google, Pornhub. È difficile ed impersonale: il tutto viene affidato ad un form automatico, abbandonato al flusso come la cesta Mosè sulle correnti del Nilo, se tutto va bene avremo il Salvatore; se no, coccodrilli.
L’enorme connessione non implica una elevata possibilità di farsi ascoltare.
E non si ha mai – mai! – un approccio umano e disintermediato, sostituito da procedure preimpostate e mediate.
Questo è un problema complesso da gestire ma cruciale: e vicende come quella della Cantone dimostrano che sta diventando una esigenza profonda, capace di influire sul benessere dei cittadini. Qualcuno deve obbligare le grandi aziende ad ascoltare i customer.

La faccenda dei 20.000 euro, poi, è paradossale. Sono le spese processuali che la Cantone doveva rendere, e che sostanzialmente compensavano il risarcimento di 21.000 euro stabilito dal giudice: e se ci trovassimo di fronte a un suicidio per denegata giustizia?
È giusto l’attuale sistema di calcolo delle spese processuali?
Il nostro sistema giuridico spesso è ostile al cittadino, che non intende spendere tempo e molti soldi per cause di minimo valore: una barriera economica alla giustizia di sicuro funzionale; non sono altrettanto sicuro che sia costituzionale.

Umberto Mangiardi

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