
Ed ora prova ad immaginare l’acqua gelida che ti entra nelle ossa. Il cielo sopra di te è scuro come la pece, il mare che ti avvolge altrettanto nero.
La pece stessa, il carburante che avrebbe dovuto portarti verso una nuova vita, ti si appiccica sulle mani, ti incolla addosso i vestiti, ti impasta i capelli, ti lascia in bocca un sapore sintetico. E tu temi che quello sarà l’ultimo sapore che sentirai in vita tua. Così diverso dal sapore di sukumawiki del tuo ultimo pasto. No, non può essere. Non ora.
Ti torna in mente la polvere sconfinata. Le partite con un pallone di fortuna costruito con stracci vecchi, il calore sfiancante dell’Equatore, le grida di incitamento dei tuoi compagni di squadra, la porta improvvisata con due bastoni che si avvicina sempre di più.
Il sudore.
La meta è sempre più vicina.
Ancora un passo.
Un calcio. Gol.
L’acqua ha impregnato ogni millimetro dei tuoi jeans. Una mano invisibile ti trascina sempre più in basso, e tu lotti, lotti con tutta la furia che ti rimane in corpo contro quell’acqua assassina che si frappone tra te e la meta.
Pensa che sia quella porta di un pomeriggio di gennaio di sette anni fa.
Ancora un passo.
Ancora una bracciata.
E poi sarà gol.
Intorno a te le urla. Senti un rumore di motori in lontananza. Alzi gli occhi al cielo: un energumeno di latta volteggia sulle vostre teste, prima piccino, pare quasi un colibrì, poi si fa sempre più grande.
Smuove l’aria intorno a voi, si alzano altre onde.
Poi si allontana.
Quella mano che ti attanaglia le caviglie si sta facendo più forte. E le tue bracciate sono sempre più deboli, stentate.
Ma le tenebre sotto di te fanno paura, una paura fottuta.
Cosa ci sarà mai dall’altra parte di quell’oscurità?
Basta una bracciata, ancora una.
Tua madre che ti bacia senza versare una lacrima sulla porta di casa. Quella sacca di tela sulle spalle, dentro un paio di jeans di ricambio, due magliette, il pane che la mamma ha impastato per tutta la notte, dei documenti che sai bene che non varranno più che carta straccia. I risparmi di una vita.
Una carezza sul viso e poi vattene ora, figlio mio, in fretta, prima che il cuore mi sprofondi nello stomaco e mi manchi il respiro.
Tuo padre ha scolpito nel viso il peso di tutti quegli anni di guerra. Una pacca sulla spalla, uno sguardo d’addio, e rientra in casa. Tua madre resta a guardarti sparire fuori dal villaggio.
Ti ha promesso che ti raggiungeranno in Svezia, quando ti sarai sistemato, ma sai bene, in fondo, che non li vedrai mai più.
Un sorso d’acqua salata. Cerchi di sputare, ma ne entra altra. Ti ricorda il sapore della salamoia, quella volta che per sfida dovesti restare immerso in un barile di quella roba per tre minuti.
Vincesti la sfida. Ti rimase in bocca quel sapore di sale per un’eternità.
Un’altra golata. La gola brucia, si ribella, tossisci disperatamente fuori quel poco di animo che ti resta in petto.
Nel buio scorgi due occhi che ti fissano silenziosi. Due occhi piccoli, sgranati, terrorizzati. Scuri come quell’abisso che si sta prendendo, uno ad uno, i tuoi compagni di viaggio.
Li vedi scivolare verso il fondo.
Un attimo, e non ci sono più.
Lucky John, fratello mio, dove sei? Sedevi a fianco a me un attimo prima che ci ribaltassimo. Mi raccontavi di quel nostro compagno di scuola che scriveva sue notizie dalla Danimarca.
Là puoi uscire dopo il calar del sole, mi dicevi, e puoi star pur certo che nessun cecchino ti sparerà in fronte.
E la sera il sole si immerge nel Mare del Nord con una lentezza disarmante, non come i nostri tramonti frugali, chè l’orizzonte è così ingordo da inghiottirsi il sole in un boccone solo.
Lucky John, dicevi di voler aprire un ristorante, lassù nel Nord del mondo. Dicevi che lo avremmo aperto insieme. Dove sei ora, fratello mio? Con chi realizzerò il nostro sogno?
La tua bocca si riempie ancora una volta di acqua salmastra. Questa volta è troppa, non riesci a sputarla. La senti scendere a capofitto nei polmoni.
Un’altra golata.
La mano che ti attanaglia è arrivata alla vita. Tira, tira con una forza sovraumana.
Non sono una ma mille mani che vogliono farti scoprire i segreti del fondo del Mediterraneo. Ora ti trascina dalle spalle, verso l’abisso.
Dai un ultimo sguardo al cielo sopra di te. Dove sono le stelle del nostro cielo, madre mia?
Che fine ha fatto quella cupola di stelle sotto cui mi addormentavo quando ero a casa?
Non era pur sempre lo stesso cielo, mi dicevi, quello che accarezzava le nostre teste e quelle degli europei?
Le mani ti hanno afferrato i capelli.
Le stelle non si vedono più.
Maria Musso
@twitTagli