
Pare che un indovino avesse predetto all’erede al trono d’Austria, l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo, che questi un giorno avrebbe provocato una guerra mondiale. L’arciduca, un uomo molto superstizioso e ambizioso, si era sentito gratificato dalla profezia, interpretandola come un segno che presagiva i futuri trionfi del suo regno. Mai avrebbe potuto immaginare che non sarebbe stato un suo ordine perentorio a scatenare lo scoppio del conflitto, bensì la sua morte.
Francesco Ferdinando arrivò in Bosnia-Erzegovina il mattino del 25 giugno 1914. In quanto ispettore generale dell’esercito imperiale, voleva assistere personalmente alle esercitazioni militari dei corpi d’armata stanziati nella regione. La Bosnia era stata annessa all’Impero austro-ungarico nel 1908, e con la sua presenza l’arciduca intendeva ribadire al mondo e, in particolare, alla Serbia che la corona asburgica non avrebbe rinunciato al suo ruolo di potenza nei Balcani.
Nella sua mente l’erede al trono coltivava il progetto di ridare centralità all’elemento tedesco dello Stato, sebbene ufficialmente sostenesse il trialismo, il coinvolgimento degli slavi del sud nelle responsabilità di governo insieme agli austriaci e agli ungheresi. Ma il suo scopo, in realtà, era ispirato a un vecchio adagio del potere: divide et impera. Avrebbe messo l’una contro l’altra le varie nazionalità che componevano l’impero asburgico (romeni, ungheresi, croati, serbi, cechi, slovacchi, italiani, polacchi, ucraini, sloveni, bosniaci), e avrebbe così creato una “Grande Austria” con l’obiettivo a lungo termine di annettere anche la Serbia e il Montenegro.
Fra il 12 e il 14 giugno si era incontrato a Konopischt con il kaiser Guglielmo, che gli aveva dato rassicurazioni sulla collaborazione tedesca a un attacco austriaco alla Serbia, anche se i due non avevano espressamente parlato di date, ma solo di scenari futuri. Francesco Ferdinando sapeva, o magari sperava, che i suoi piani politici avrebbero causato delle reazioni internazionali, forse una rivoluzione in Ungheria o una guerra contro l’Italia, ma ad ogni modo l’uso della forza non lo spaventava. Aveva ricevuto una rigorosa educazione medioevale e cercava nel passato le soluzioni per stabilizzare l’avvenire dell’Impero.
La moglie dell’arciduca, la duchessa Sofia, aveva insistito per accompagnare il marito nella sua visita in Bosnia, a Sarajevo, perché temeva che qualcuno potesse attentare alla vita di lui. L’anno prima, infatti, nel clima incendiario delle guerre balcaniche, Austria-Ungheria e Serbia erano state sull’orlo del conflitto, e il governatore della Bosnia, il generale Oskar Potiorek, aveva approvato impopolari misure d’emergenza, che si erano aggiunte al malcontento per lo sfruttamento economico e all’occupazione militare asburgica. La soppressione delle libertà civili aveva esacerbato i sentimenti di vendetta dei numerosi gruppi nazionalistici slavi, come i Giovani Bosniaci, che aspiravano a una federazione di tutti i popoli slavi dei Balcani (la Jugoslavia).
La mattina del 28 giugno, mentre l’arciduca e la duchessa venivano accolti alla stazione di Sarajevo dal generale Potiorek e salivano su un’automobile sportiva con la cappotta scoperta, uno studente di nemmeno vent’anni, Gavrilo Princip, si sistemava sul lungofiume Appel, confondendosi con la folla che era in attesa del corteo imperiale. Nella cintura dei pantaloni nascondeva una pistola e una bomba. Con lui, in diversi punti strategici del lungofiume, stavano altri sei cospiratori armati, tutti appartenenti, come Princip, alla società segreta dei Giovani Bosniaci.
I Giovani Bosniaci vivevano nel mito del tirannicidio. L’omicidio politico era considerato, sulla scorta delle idee diffuse da patrioti come Giuseppe Mazzini, come un mezzo moralmente legittimo per sbarazzarsi dei tiranni e dare avvio alla rivoluzione. In tutto il mondo, tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, re e presidenti caddero vittima di attentati a sfondo politico: nel 1881 fu assassinato lo zar Alessandro II; nel 1894 fu ucciso il presidente francese Carnot; nel 1900 toccò al re italiano Umberto I; l’anno dopo al presidente americano McKinley. E molti altri complotti fallirono o vennero sventati dalle forze di sicurezza degli Stati.
Nessuno, tuttavia, fermò Princip e gli attentatori. Nonostante l’apparato spionistico austriaco, generalmente assai efficiente, sospettasse che la vita di Francesco Ferdinando fosse in pericolo, i giovani assassini e il loro coordinatore, Danilo Ilić, non furono seguiti nei loro spostamenti né il 28 giugno né nelle settimane precedenti. Così, quella mattina, sul lungofiume Appel, erano soltanto uomini in mezzo alla folla.
Frattanto, l’auto di Francesco Ferdinando e le altre cinque vetture che componevano il corteo imboccavano la Beledija, la strada che affianca il fiume Miljacka. La comitiva procedeva lentamente: l’arciduca voleva ammirare la città e, al contempo, ricevere i saluti dei sudditi a lui leali ed esibire al popolo la duchessa, la futura regina consorte.
Alle 10.10, mentre il corteo imperiale transitava sotto gli occhi dei cospiratori, accadde l’imprevisto. Nessuno di loro si mosse. Erano paralizzati dalla paura. Paura di essere scoperti, paura di colpire la duchessa. Nedeljko Ĉabrinović, però, ebbe un improvviso scatto d’orgoglio. Era il 28 giugno, Vidovdan, la festa di San Vito, e per i serbi il 28 giugno non è una data come le altre. La leggenda narra che il 28 giugno 1389 un nobile serbo, Miloŝ Obilić, poco prima o, forse, durante la sanguinosa battaglia nella piana dei Merli (Kosovo Polje) fra l’esercito serbo comandato dal principe Lazar e le truppe ottomane, penetrasse con l’inganno nel campo turco e uccidesse il sultano Murad con una pugnalata nello stomaco. Nonostante l’eroica impresa, quella data segnò simbolicamente l’inizio della secolare dominazione turca sui serbi.
Ĉabrinović doveva pensare all’audace azione di Obilić, al primo grande tirannicidio della storia serba e a tutto il mito nazionalista del Kosovo mentre domandava a un poliziotto su quale vettura viaggiasse Sua Maestà. Estrasse la bomba dalla cintura, innescò il detonatore impattando la capsula contro il palo di un lampione e la scagliò contro la macchina di Francesco Ferdinando. L’autista, con un riflesso provvidenziale, pigiò l’acceleratore. La bomba cadde inesplosa sulla capote ripiegata dell’auto e poi terminò la sua parabola sulla strada. Esplose sotto la ruota sinistra posteriore dell’auto che seguiva, generando una buca profonda sedici centimetri e ferendo una dozzina di persone.
L’arciduca era incolume. L’attentato era fallito.
Per un attimo gli occhi di Francesco Ferdinando e di Ĉabrinović si incrociarono. Poi il giovane si infilò in bocca del cianuro, balzò oltre il muretto di protezione e, con un tuffo di otto metri, si buttò nel fiume. Sopravvisse al veleno e alla caduta. «Sono un eroe serbo», dichiarò ai poliziotti che lo arrestavano.
Intanto, Princip, udita l’esplosione, vide scorrere davanti a sé il corteo imperiale. Non riuscì a riconoscere la vettura dell’arciduca, che adesso si muoveva spedita. L’occasione sfumò.
«Quel tipo deve essere pazzo. Signori, andiamo avanti secondo il programma», disse Francesco Ferdinando, mentre l’auto si dirigeva al municipio di Sarajevo. Il sindaco della città non sapeva nulla dell’attentato, ma intuì che qualcosa era successo osservando il volto irato dell’arciduca.
«Vengo a Sarajevo per una visita amichevole e qualcuno mi lancia contro una bomba. È una cosa indegna!», proruppe l’erede al trono, che, nei minuti successivi, provò ad allentare la tensione con battute di un umorismo macabro, non nuove al suo carattere. «Oggi ci regaleranno qualche altra pallottola», scherzò con i suoi consiglieri. «Pensate che ci saranno altri attentati contro di me?».
La domanda colse Potiorek alla sprovvista. «Andate con tranquillità. Mi assumo tutta la responsabilità», rispose alla fine il governatore.
Alcuni consiglieri proposero comunque di modificare l’itinerario o il programma, se non addirittura di abbandonare Sarajevo. L’arciduca stabilì che avrebbe rispettato gli impegni previsti, ma che, prima di proseguire, avrebbe fatto visita in ospedale al tenente ferito dalla bomba. Anche la duchessa, che avrebbe dovuto recarsi alla residenza del governatore, si unì al marito.
Nel frattempo, Princip, che probabilmente aveva perso le speranze di poter uccidere l’arciduca, era entrato in una taverna di via Francesco Giuseppe, una traversa del lungofiume Appel da cui, secondo le comunicazioni ufficiali, il corteo sarebbe dovuto ripassare al ritorno dal municipio. Giunta all’incrocio, l’auto dell’arciduca non continuò sul lungofiume, diretta all’ospedale militare, ma voltò inaspettatamente a destra in via Francesco Giuseppe seguendo le prime due vetture. Nessuno aveva avvertito l’autista dei cambiamenti apportati al percorso.
Potiorek gridò all’autista: «Che succede? Fermatevi! State sbagliando strada! Dobbiamo andare per il lungofiume!».
L’autista fermò bruscamente la macchina. Princip, dalla taverna, vide la vettura dell’arciduca immobile in mezzo alla strada. Dopo un fugace attimo di esitazione, dovuto alla presenza della duchessa, uscì sul marciapiede ed estrasse il revolver. Mentre mirava in modo approssimativo e concitato a Francesco Ferdinando, un poliziotto cercò di impedirgli di sparare afferrandogli la mano, ma un giovane, un attore di nome Mihajlo Puŝara, lo bloccò. Puŝara si avventò poi contro il tenente barone Andreas von Morsey, che era sceso da una delle auto con la sciabola sguainata.
Princip girò la testa e fece partire due colpi. L’arciduca e la duchessa rimasero inerti per qualche istante. Poi, quando la macchina ripartì a tutta velocità, la duchessa crollò sull’arciduca, dalle cui labbra colava un rivolo di sangue.
«Non è nulla, non è nulla», ripeté l’arciduca, finché, con un rantolo convulso, non spirò.
Princip fu arrestato insieme ai suoi complici. Sarebbe morto in carcere il 28 aprile 1918.
Il 23 luglio 1914 l’Austria-Ungheria lanciò un ultimatum in dieci punti alla Serbia, nonostante i rapporti delle autorità che si erano occupate di indagare sull’attentato avessero escluso la complicità del governo serbo. La Serbia accettò di soddisfare tutte le richieste, tranne quella di aprire un’inchiesta giudiziaria con la collaborazione di delegati dell’Impero, ma dichiarandosi comunque disponibile a sottoporre la questione al tribunale internazionale dell’Aja o alle altre grandi potenze europee.
Il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiarava guerra alla Serbia. Nel giro di pochi giorni, per il perverso meccanismo delle alleanze stipulate fra le potenze, l’Europa era in guerra. Il conflitto sarebbe poi diventato mondiale.
Jacopo Di Miceli
@twitTagli
Per approfondire:
Vladimir Dedijer, Il groviglio balcanico e Sarajevo, trad. it. Il Saggiatore, Milano 1969.