Sfogo di un antiprandelliano della prima ora

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Fino all’altro ieri ero solo in un paese di prandelliani. Del Prandelli allenatore convinceva tutto: il codice etico, il modulo con 5 centrocampisti, la scommessa di Balotelli in attacco, il gioco spagnoleggiante tutto palleggio e tocchetti raffinati, il Cassano redivivo, persino Paletta e Thiago Motta, oriundi per cui è stata frettolosamente coniata la definizione di “nuovi italiani”.

L’Italia pareggia col microscopico Lussemburgo? Poco maleci rassicuravamo –, le amichevoli non contano, anzi da un confronto storico con i risultati premondiali emerge pure un dato confortante, ovvero che le figuracce sono di buon auspicio.

L’Italia non riesce a vincere in casa contro la modestissima Armenia e butta al vento la qualificazione mondiale come testa di serie del girone? Non è uno scandalo – replicavamo con nervi saldi –, anzi non ci interessa affatto capitare nell’urna delle favorite al sorteggio. «Agli Europei siamo partiti dietro e poi…», vaticinava allusivo Prandelli.

L’Italia viene umiliata dalla Spagna nella finale di Polonia-Ucraina 2012? Non accusiamo Prandelli per la cattiva gestione dei cambi, che ci hanno condannato a giocare in 10 dal 61’ perché le tre sostituzioni erano già state effettuate. La nazionale merita comunque applausi – sostenevamo con generosità –, anche la fortuna non ci ha dato una mano.

E si potrebbe proseguire a lungo con gli esempi: Italia-Haiti 2-2 (un’altra torta in faccia che passerà agli annali), le vittorie striminzite con Malta e isole Far Oer (evidentemente possediamo un’idiosincrasia o, al contrario, uno spirito eccessivamente umanitario verso le piccole nazioni), le carrettate di reti subite nel corso dell’ultimo anno.

Non esisteva terremoto che ci facesse vacillare dalla nostra fede, resa solida dai buoni risultati della squadra. Buoni risultati? Quali? Prima di questa breve scampagnata brasiliana, Prandelli aveva vinto solo due volte contro nazionali di alto livello in 53 partite della sua gestione: contro la Spagna in amichevole nell’agosto 2011 e contro la Germania nella semifinale degli Europei, una partita, quest’ultima, grazie a cui il ct ha vissuto di rendita fino a oggi.

Questa è stata la nazionale meno criticata di sempre. È bene ricordarselo ora che tutti si affretteranno a scomunicare improvvisamente il loro credo prandelliano, invocando la rivoluzione nel movimento calcistico italiano.

Donadoni, cui veniva di continuo rinfacciata la scarsa esperienza in panchina e, in modo velato, una sorta di raccomandazione da parte di Albertini, fu quasi crocifisso dopo aver perso ai rigori contro la Spagna nel 2008 e aveva già scampato la lapidazione dopo la prima partita persa 3-0 con l’Olanda. La sua Italia venne malignamente definita «dignitosa, onesta, ma troppo dimessa nelle ambizioni e nella qualità, troppo simile alla canottiera che ieri spuntava dalla camicia bianca di Donadoni, come Lippi mai avrebbe fatto». Lippi, appunto. Donadoni aveva convissuto per due anni con il fantasma del trionfatore di Berlino che incombeva alle sue spalle, e alla fine dovette cedergli il timone. Poi anche Lippi capì di dover fare i conti con lo spettro della sua immagine riflessa del 2006: i giornali non esitavano a mostrargliela a ogni suo passo falso.

Prandelli non ha dovuto affrontare nulla di tutto questo. Fin dall’inizio ha aprioristicamente goduto di un credito smisurato, un assegno in bianco elargitogli da federazione, media e tifosi. Per quale ragione? Perché la nazionale del Lippi II grondava di un’insopportabile antipatia aristocratica e, come spesso capita ai pavoni che si autocelebrano, venne derisa e umiliata da due Carneadi (Nuova Zelanda e Slovacchia) che la spogliarono di ogni sicurezza.
Il palazzo del calcio italiano crollò d’un tratto. Pieni di vergogna, affidammo a Prandelli il compito di ricostruire sulle macerie del Sudafrica.
Non gli chiedemmo miracoli, perché non ritenevamo di essere nella posizione di poterli esigere.
Non gli chiedemmo il bel gioco, perché non si trattava di innovare moduli e schemi, ma di riscattare il buon nome stesso del calcio nostrano.
Non gli chiedemmo di lanciare campioni, perché ci sentivamo piccoli al cospetto delle altre nazionali e ci bastava cambiare mentalità.
A dirla tutta, non gli chiedemmo un bel niente, neppure i risultati («Per come siamo messi in questo momento, se ci qualifichiamo per la fase finale dei prossimi europei o dei prossimi mondiali, dobbiamo fare una festa», disse Buffon).

Ci immergemmo volentieri in un ritemprante bagno d’umiltà, ben rappresentato dai toni dimessi e concilianti del nuovo commissario tecnico, che hanno sempre oscillato tra la rassegnazione di chi sa di avere a disposizione soltanto un materiale di bassa lega su cui lavorare e l’ottimismo di chi, contemporaneamente, sa che, per le motivazioni suddette, non ha nulla da perdere e che nessuno gli rimprovererà gli insuccessi.


Ci siamo sentiti talmente a nostro agio in questo bagno caldo d’umiltà che non l’abbiamo più abbandonato da quattro anni a questa parte.
Ancora l’altro ieri mattina (e, quindi, già alcuni giorni dopo la bruciante batosta contro la modesta Costarica) Gianni Mura su “la Repubblica” scriveva: «bisogna pensare a come [Prandelli] aveva iniziato: dai cocci del Sudafrica. Mica facile costruire. Ci ha provato e l’ha fatto bene», anche se «adesso il rischio, reale, è quello di tornare ai cocci».

Ma allora bisognerà ammettere che la rifondazione prandelliana era solo un’illusione, l’ologramma di un edificio che non è mai esistito, e che per quattro anni ci siamo beati di questo sogno, perdendo di vista la realtà, dai risultati fino alle incongruenze di un modulo zeppo di centrocampisti. Prandelli ne ha portati così tanti in Brasile che ha finito per ritrovarsi con appena due attaccanti veri a disposizione (Balotelli e Immobile): un errore tecnico madornale di cui a memoria non si trovano precedenti.
Abbiamo imposto il monopolio del possesso palla! – ci esaltavamo dopo l’Inghilterra –, dimenticandoci che, nel frattempo, gli inventori del tiqui-taca ne prendevano 5 dall’Olanda, perché la filosofia del Barcellona di Guardiola, a noi francamente estranea, si è ormai estinta da un paio d’anni, annichilita dal gioco veloce, concreto e senza fronzoli delle tedesche e del nuovo calcio spagnolo di Ancelotti e Simeone.

Odio far la parte di quello che dice “ve l’avevo detto”, ma già a fine aprile avevo evidenziato che gli ostinati dogmi prandelliani (difesa a 4, centrocampo a 5, palleggio insistente) sarebbero stati controproducenti, soprattutto nel caldo brasiliano, e che la scarsa sperimentazione tattica (come il mai tentato passaggio al 3-5-2, almeno prima dell’ultima spiaggia di Natal) ci avrebbe precluso soluzioni d’emergenza.

Adesso, nel mio antiprandellismo, sono un po’ meno solo. Da domani, spero almeno che, dopo il nuovo bagno d’umiltà, nessuno si bendi nuovamente gli occhi giustificandosi con il pretesto dei cocci del Brasile.

 Jacopo Di Miceli
@twitTagli

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