Mancano pochi giorni al voto del 4 marzo: nel corso dei mesi appena trascorsi abbiamo avuto modo di confrontarci con amici, colleghi e conoscenti per renderci conto che alle prossime elezioni molte fasce del Paese tradizionalmente educate e abituate alla politica non sanno se e come andare a votare.
I motivi possono essere diversi, e ciascuno saprebbe aggiungerne di ulteriori.
Tuttavia vorremmo spendere cinque minuti per allargare il cerchio, e riflettere su una questione precisa: il ruolo della utopia in politica e la sua articolazione nel presente sotto forma di una potenziale sindrome di Stoccolma.
In vista delle elezioni ogni persona, ogni gruppo, ogni partito mobilita tutte le risorse materiali e culturali di cui dispone per attrarre più simpatizzanti verso la proprie posizioni. Assistiamo quindi ad un numero di strategie di ingaggio più o meno sofisticate per ingrossare le fila degli elettori. [1]
Una di esse è la promessa di un posto di lavoro, di una rendita o di altre forme premiali. Promessa che declina in varie forme una restaurazione di uno status quo ante. In particolare, si tratta di uno status precedente le riforme della previdenza e pre-articolo 18, come raccontato anche in questo nostro articolo.
Se istanze di questo tipo sono naturalmente affini alle strategie elettorali del fronte nazionalista e di destra, diverso è il discorso relativo ad alcune forze di “sinistra” che usano la leva dell’utopia per mobilitare gli animi. Quello che sorprende è che tale utopia non è progressista, bensì appunto restauratrice. Quello che non sorprende è che si tratta di una restaurazione utopistica.
Quello che preoccupa è che esiste il rischio concreto di farsi irretire da una pericolosa sindrome di Stoccolma, e supportare questa utopia che va a beneficio di altri.
L’ utopia presente. La restaurazione dei diritti acquisiti
Andiamo con ordine. Una transizione cruciale del nostro periodo è il tramonto dei vecchi rapporti di forza, e il tentativo delle classi dominanti di evitare la perdita delle proprie prerogative e rendite.
In questa lotta la retorica più subdola – concentrata in questo momento elettorale, ma non limitata ad esso – è quella, tanto banale quanto efficace, dei diritti acquisiti sui temi di lavoro e previdenza: è una retorica costruita a vantaggio esclusivo di quelle fasce di popolazione protette dall’antico sistema.
Effettivamente i vecchi contratti pre-Jobs Act unitamente al regime previdenziale pre-Fornero assicuravano una vita al di sopra della dimensione della scarsità delle risorse; non per tutti, naturalmente, ma per molti.
Tuttavia, come intuibile allora e come ampiamente dimostrato nei dieci anni successivi al grande aggiustamento strutturale iniziato nel 2008, la sovrabbondanza di quegli anni è stata artificialmente generata a debito; il debito che grava sulle generazioni successive, cioè le attuali, i cui redditi ne sono la garanzia.
Hanno consumato i padri e pagano i figli.
Ebbene, tra i molti fattori storici, politici, economici di quel contesto, un ruolo decisivo l’ha giocato l’utopia, ossia la promessa di risultati – un benessere diffuso – scevra di una discussione sui mezzi adoperati per ottenerli.
La globalizzazione narrata come posizione giuridica di vantaggio”.
L’utopia del diritto alla stabilità e alla certezza dei mezzi materiali per tutti ha spezzato il vincolo atavico di solidarietà intergenerazionale. Infatti, le due generazioni che hanno preceduto la nostra – noi che oggi abbiamo trent’anni – si sono assicurate la propria rendita per il futuro impermeabilizzandola rispetto alle vicende politiche, economiche e sociali che avrebbero interessato il Paese.
È una questione di cronaca: a partire dagli anni ’70 una circostanza storica – quella di essere le prime generazioni a doversi confrontare con un sistema economico che cambia di fronte alla globalizzazione – è stata trasformata e narrata come una posizione giuridica di vantaggio, e in quanto tale meritevole di protezione.
Un’operazione compiuta senza curarsi di chi avrebbe pagato il prezzo, e che ha dato origine a due schieramenti netti tra i lavoratori: da un lato chi è dentro, dall’altro chi è rimasto fuori, nella precarietà strutturale.
La differenza tra le due classi emerge chiaramente quando a fronte dello svolgimento delle medesime mansioni, dello stesso inquadramento e della medesima anzianità due lavoratori godono di diritti diversi a seconda che siano stati assunti prima o dopo il 7 marzo 2015, data di entrata in vigore del Jobs Act. Una differenza analoga riguarda il trattamento legato al nuovo regime pensionistico introdotto con la riforma Fornero del 2011. Esso conferma il principio contributivo – esteso solo parzialmente in maniera retroattiva alle classi originariamente escluse dalla riforma Dini del 1995 – al quale deve aggiungersi l’innalzamento dell’età pensionabile in funzione della aspettativa di vita.
Ebbene, è evidente come in seguito alle riforme citate si possa assistere al paradosso per cui nonostante due lavoratori siano attivi gomito a gomito all’interno della medesima azienda essi possano ritrovarsi su due pianeti diversi sul piano dei diritti.
Tornare al pre-Jobs Act e al pre-Fornero è un richiamo all’utopia: un’utopia pericolosa”.
Il richiamo all’utopia al momento del voto è di per sé un’operazione maldestra e pericolosa perché pretende di imporre un risultato perfetto su una realtà imperfetta. Se l’utopia viene realizzata, essa riguarda uno o più gruppi di persone, a discapito di altri che lavorano per alimentarla attraverso schemi di imposizione fiscale e previdenziale regressivi.
In questo scenario, l’utopia realizzata per alcuni viene brandita come strumento di persuasione per tenere cheti quelli che ne sono esclusi, con la promessa di un futuro ingresso nell’Eden della stabilità lavorativa.
È precisamente quello che è avvenuto, non in una divisione intra-sociale ma inter-generazionale; non nello spazio ma nel tempo.
Il tentativo di instaurare un paradiso in terra si è tramutato, come ammonisce Holderlin, in un inferno.
Sindrome di Stoccolma: finanziare una festa a cui non si è invitati
Quell’utopia è il primo nodo del discorso.
Va colta e analizzata se non vogliamo dare corso a un caso di sindrome di Stoccolma di portata generazionale. Che è il secondo nodo. In effetti, l’adozione irriflessa di quell’affascinante utopia da parte della nostra generazione rischia di dare corso a un innamoramento di massa del nostro carnefice, rafforzando ulteriormente le dinamiche di esclusione economica, sociale e politica di chi oggi ha trent’anni.
Pensiamoci: non abbiamo assistito a nessuna manifestazione di solidarietà, nessuna astensione collettiva dal lavoro da parte degli insiders contro una simile discriminazione. Sembra che essi abbiano pacificamente accettato che la pretesa utopica di garantire il proprio risultato salariale e previdenziale indipendentemente dalle condizioni di mercato venga realizzata imponendone il costo alla nostra generazione, che, sola, si trova a fungere da cuscinetto rispetto alle fluttuazioni del mercato.
Non basta: oggi assistiamo addirittura all’ulteriore paradosso per cui gli esclusi dall’utopia aderiscono entusiasticamente alla medesima chimera del ritorno alla stabilità assoluta, anche questa volta a carico del futuro. Sembra impossibile ma accade: ascoltare alcuni candidati della sinistra radicale inneggiare all’abolizione della riforma Fornero o alla reintroduzione dell’art. 18.
Eppure in un contesto globale nel quale l’Italia non è né legislatore né protagonista, la rimodulazione delle protezioni sulla base delle risorse realmente disponibili risponde a criteri di giustizia e dignità.
Giustizia, perché non è accettabile che il criterio di antecedenza temporale legittimi un processo estrattivo di risorse a danno di chi viene dopo. In questo senso, non è un caso che il principio guida alla base della riforma Fornero fosse l’ “Equità e convergenza intragenerazionale e intergenerazionale, con abbattimento dei privilegi e clausole derogative soltanto per le categorie più deboli”.
Dignità, poiché non esiste condizione reale di autonomia laddove la pressione fiscale e contributiva siano tali da soffocare il reddito netto percepito. E non ci si inganni, la rigidità dei contratti pre Jobs-act contribuisce in maniera importante al processo di compressione degli stipendi degli altri dipendenti.
In questa maniera ci perdiamo tutti: le aziende, i giovani e infine il Paese intero che si ritrova sempre più alla periferia d’Europa più povero ed anziano.
Non ci sono generazioni successive a noi pronte a pagare il nostro salario declinato alla vecchia maniera”.
La mancata estensione dei diritti dell’antico regime ai contratti attuali non è, dunque, una questione di mancanza di volontà, ma è dettata dalla natura eccezionale, utopistica appunto, dei primi. La trasformazione del salario in una rendita percepibile indipendentemente dalle condizioni del momento richiederebbe l’esistenza di qualcun altro pronto a pagarla.
La realtà di oggi ci dice che non ci sono generazioni successive alla nostra candidate per farlo; il cerino è rimasto in mano nostra. E la nostra generazione, il cui futuro la riforma previdenziale prova a tutelare, si ritrova invece affascinata da un impossibile ritorno a garanzie che sarebbero comunque a tutela di altri.
Trent’anni, un cerino e il rischio di votare per un sogno irrealizzabile, e oltretutto per un sogno da cui saremmo comunque esclusi.
La responsabilità di evitare la trappola
Quanto sopra conduce ad alcune riflessioni e conclusioni.
Innanzitutto, e sembra ovvio, non basta sventolare la bandiera di un’utopia facendo la gara a chi sogna più forte per accreditarsi come forza di cambiamento. Se così fosse avremmo avuto i poeti alla guida delle nazioni e non uomini politici calati nella realtà, segnata da un’alternanza di tentativi, errori e risultati.
In secondo luogo, crediamo che un giudizio tanto sul piano della giustizia sociale quanto su quello politico dipenda in maniera decisiva dal fatto che si diano o meno le spalle alla realtà.
È di facile intuizione, infatti, che con la schiena rivolta verso il Mondo la destra diventi sinistra, che l’idea di un paradiso nella mente apra le porte a un inferno e che la promessa di una rivoluzione diventi il migliore alleato della conservazione.
Se c’è un ruolo per l’utopia nella vita politica di un Paese, esso riguarda il piano personale di ciascuno il quale, nell’ambito del proprio agire, cerca di conformare se stesso – e non la società – ad un ideale etico e morale. Le distanze tra utopia e realtà possono essere ridotte grazie all’azione continuativa di alcune forze all’interno della società.
I drammatici atti di rottura, “inversione di tendenza” e “nuovi inizi” imposti dall’alto sono destinati esclusivamente a lacerare la società senza cambiarla: con il cerino ancora in mano, speriamo di avere abbastanza lumi da non cadere nel fascino di un’utopia alla quale non siamo stati invitati.
Marco Giraudo
Edoardo Frezet