Sardine: perché manifestare serve, ma non basta

A Berlino è il 29 gennaio 1933. Una domenica. Nella piazza del Lustgarten ci sono circa duecentomila persone convocate dal partito socialdemocratico tedesco. Una folla immensa.
Marciano anche ventimila uomini in divisa del Reichsbanner, la componente paramilitare del Fronte di Ferro antifascista. Uno spettacolo non meno impressionante delle camicie brune.

Alle porte del castello imperiale è appeso uno striscione: “Berlino rimane rossa”. Il generale Kurt von Schleicher, cancelliere da poco più di un mese, è già a un passo dall’essere rimosso dal suo incarico: non ha mai ottenuto il voto di fiducia del parlamento.
Alle sue spalle grandi manovre, intrighi, voci incontrollate. Il presidente Hindenburg richiamerà l’odiato Papen al governo? L’esercito interverrà contro l’ipotesi di un esecutivo Hitler? Tutto è possibile in quelle ore.
I manifestanti, però, sanno una cosa: è necessario salvare la Repubblica di Weimar dalla minaccia nazista.
Ci si stringe solidali.
Si canta l’Internazionale.

E poi che succede? Niente. La folla si disperde.
Il giorno dopo, il 30 gennaio, Hitler viene nominato cancelliere.

Le manifestazioni, dunque, o sfociano con effetti concreti nella politica che conta, nei palazzi dove si prendono le decisioni, o non servono a niente. Come i girotondi, il popolo viola, le magliette rosse.
Esprimere dissenso va bene, ma non basta.
Se le sardine – o chi per loro – vogliono cambiare le cose,  si iscrivano in massa a un partito antileghista – che sia il Pd o un altro è indifferente – e lo rivoluzionino dall’interno.

Lo spingano su posizioni nuove, popolari. Prendano il potere. Le altre soluzioni sono tutte destinate a svanire, come i duecentomila di cui ormai nessuno si ricorda marciassero contro Hitler.

Jacopo Di Miceli

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