Ri-flessioni cinematografiche: lo specchio e l’introspezione nella letteratura di pellicola

specchio intrrospezione

Spesso lo sguardo si sospende, si interrompe. Le pupille si lasciano accarezzare dal dolce andirivieni delle palpebre e incominciamo a pensare, o meglio, a riflettere. Ripieghiamo la mente all’indietro urtando contro quel momento del processo conoscitivo in cui l’intelletto non solo conosce ma sa anche di ri-conoscere e assumere a oggetto se stesso.

Ri-flettere: ecco la divaricazione da cui zampilla il pensiero, il divertimento metafisico dell’essere. Guardare dall’esterno quello che avviene all’interno. Io penso me stesso mentre penso. E comincio a segnare il breve giro di compasso del nostro essere. Ed è da qui che nasce lo smarrimento, la scoperta dell’identità finisce col diventare problema tormentoso, se non addirittura un dramma.

Appena scopro la mia identità scopro il diverso, il plurale. E a questa drammatica scoperta ci si arriva riflettendo e “riflettendoci”sopra: il riflettere, infatti, si riferisce tanto alle impressioni e sentimenti che derivano dalle idee, quanto al rinvio (o alla deviazione) che un determinato ostacolo determina nelle radiazioni luminose; indicativo, in tal senso, è il caso dello specchio e della sua intrinseca “condanna” al riprodurre ciclicamente immagini per riflessione.

Tommaso Campanella era consapevole del grande potere contenuto in certi scambi di sguardo: “L’occhio manifesta molte cose magiche, poiché quando un uomo incontra un altro, pupilla contro pupilla, il bagliore più potente dell’uno acceca, seduce e domina l’altro che non può sostenerlo e trasmette spesso sul più debole la passione che egli possiede: gli amanti l’amore, i collerici il disdegno, i turbati la tristezza…”.

Un potere che diventa devastante e divulgatore nel momento in cui ci accorgiamo che la pupilla incrociata dal nostro sguardo è quella nostra. Il riflettere, dunque, può drammaticamente farsi momento contemplativo-rivelativo soprattutto grazie alla presenza dell’elemento “rimandante” (lo specchio) o, se vogliamo, sfruttando appieno la sublime virtù riproduttiva del momento “ascetico” per eccellenza: il cinema (non per niente riflettere in inglese diventa Reflex, cioè quel tipo di mirino che nelle cineprese consente di vedere l’oggetto da fotografare direttamente attraverso l’obiettivo).

Possiamo anzi affermare che, proprio partendo da qui, certo cinema ha fondato la sua ragion d’essere proprio nella ricerca di una forma pura di “riflettorizzazione”. Ha, in altre parole, amplificato la sua connaturata natura “riflettente” essenzialmente pescando nelle potenzialità intrinseche offerte da specchi e superfici “rinvianti” presenti massicciamente nelle sue pellicole. Ma se c’è un cinema riflettorizzante ci saranno anche registi riflettorizzanti. Registi, cioè, in grado di esasperare quelle immagini-cristallo,

Mino Ceretti, L'uomo allo specchio rotto, 1957 Mino Ceretti, L’uomo allo specchio rotto, 1957

momento cardine della monumentale opera sull’immagine-tempo deleuziana.

In breve: l’immagine-cristallo si produce quando “l’immagine ottica attuale (descrizione, presente, reale ecc..) si cristallizza con la propria immagine virtuale (ricordo, passato ecc..)”, quando l’immagine presenta una doppia faccia insieme attuale e virtuale, producendo una nuova forma di indiscernibilità. Deleuze parla di immagini doppie per natura nelle quali l’indiscernibilità tra attuale e virtuale, presente e passato, reale e immaginario, vero e falso, non si produce nella mente dello spettatore, ma è un vero e proprio carattere oggettivo di questo tipo di immagini.

Un esempio efficace di immagine cristallo è, guarda caso, l’immagine allo specchio:l’immagine allo specchio è virtuale in rapporto al personaggio attuale che lo specchio coglie, ma è attuale nello specchio che lascia al personaggio soltanto una semplice virtualità e lo respinge fuori campo”.

Tra i numerosi autori di immagini cristallo ricordati da Deleuze, ci sono Orson Welles (ne La signora di Shangai si ricorda la celebre sequenza finale dove, il moltiplicarsi degli specchi cattura l’attualità dei personaggi i quali sono costretti a distruggerli per “evadere” dalla loro virtualità), Tarkovskij (valga per tutti il suo film intitolato, appunto, Lo specchio), Resnais (la confusione di passati-presenti di L’anno scorso a Marienbad).

Ma è nel melodramma in technicolor di Douglas Sirk che la possibilità di realizzare un cinema virtuale si impone su tutto. In Secondo Amore, il conflitto di classe tra Wyman e il boscaiolo Rock Hudson (in realtà, un conflitto tra pulsioni erotiche mal represse), è preda delle superfici riflettenti che sguazzano nelle opprimenti machine-à-habiter costruite da Sirk. Quando i figli di lei, spinti dal tentativo di stanare le “cattive” inclinazioni materne, decidono di regalarle un televisore, il trapasso nell’irreale è cosa fatta: nello schermo spento del televisore (specchio dei tempi?) reso emblematico dalla storia d’amore tra la “matura” Jane l’immagine riflessa della Wyman in bianco e nero è un mirabile esempio di fuori-campo ideologico.

L’orgia di colori che impregna la stanza circonda in maniera emblematica la cornice del televisore, bollando – in maniera netta – l’irreversibile situazione di prigionia a cui la ricca borghese è condannata. E che l’essenza del film sia rintracciabile nell’uso claustrofobico degli specchi, risulta chiaro affondando lo sguardo anche nel “celebrale” remake, La paura mangia l’anima, l’omaggio che il regista tedesco Fassbinder volle dedicare alla sua musa Douglas Sirk.

Anche qui, la consapevolezza della difficile storia d’amore tra Emmi, una sessantenne vedova e con figli sposati, e Alì, un marocchino immigrato per lavoro in Germania, “scoppia” negli specchi: Emmi rende drammaticamente attuale al suo sguardo l’oggetto sessuale-Alì solo attraverso la contemplazione della sua immagine riflessa dal piccolo specchio del bagno. La tragica impossibilità della relazione è tutta nel incontro-scontro tra le pupille virtuali e quelle attuali: l’anziana signora, disorientata dalla realtà scrutata nello specchio-palla di vetro, distoglie senza indugio lo sguardo, annulla di fatto la ri-flessione, e condanna il cinema, questo cinema, a vivere in una metafisica virtualità moralmente più sana del fallace presente.

Mimmo Carretta

@twitTagli

Post Correlati