Ci sono due tipi di nostalgia.
Il primo, come insegna Woody Allen, è lo struggimento di non poter vivere in un’era precedente alla nostra nascita: è la mitizzazione di un’epoca che non si conosce e che – proprio in virtù di questo – è lecito idealizzare oltre misura, nel puro divertissement di una notte. O di un tempo più breve ancora.
Il secondo tipo di nostalgia è il sogno di una DeLorean che ci ricatapulti nei ricordi felici della nostra autobiografia: è il conforto dell’immobilità del passato di fronte alle incertezze mutevoli del futuro.
E poi c’è la retronostalgia. La retronostalgia mette al bando questo sentimentalismo romantico. È il revival dei trentenni che, senza essere ancora invecchiati, già rimpiangono l’infanzia e l’adolescenza. È la riproposizione modaiola di stilemi e costumi intimamente connessi con gli anni spensierati, ma recentissimi, di una giovinezza non ancora estintasi. È un rimpianto talmente assurdo da suonare quasi finto, artificiale, come se l’obiettivo fosse stendere un gap di “figaggine” con i fratelli minori, quelli nati dieci anni più tardi, in una ridicola gara a “chi ha vissuto e fatto più cose”. Il famigerato “Ma che ne sanno i Duemila”.
Ma, sotto la superficie di tendenze in apparenza frivole, si nasconde di più: con la retronostalgia trovano sfogo, in forma ironica o commerciale, tutte le delusioni e le frustrazioni che la generazione dei millennials, tradita dalla crisi, non ha potuto esprimere in un altro modo nella società. Spingendola a cercare rifugio, prima del tempo, in un passato vicino, troppo vicino, in cui le responsabilità e i problemi della vita adulta erano ancora percepiti come lontani.
Non ci sembra di esagerare dicendo che è quasi materia da lettino dello psicanalista. A nostra memoria, infatti, esiste una barriera psicologica della nostalgia, spessa almeno due decenni, che tuttavia la retronostalgia abbatte in un impulso di malinconia.
E così è già tornata la voglia di rituffarsi nella moda anni 2000 e di ripescare dall’armadio capi appena dismessi. Pantaloni a vita bassa, cinture borchiate, maglie stratificate. Davvero ne sentiamo già la mancanza? E poi quanto è autentica l’esaltazione di certa mitologia “ignorante”, come i meme sul Nokia 3310, da parte di una generazione che proprio nel mondo digitale contemporaneo pare aver trovato la sua dimensione?
Non siamo gli unici a essercene accorti. Fenomeni come la #TenYearChallenge, che Facebook ha recentemente pompato, e le playlist degli anni ’00, che campeggiano sulle home di app come Spotify, attingono a piene mani dal serbatoio della retronostalgia. E la alimentano.
Un gioco pericoloso
È un gioco pericoloso, quello della retronostalgia, e non tanto perché ha alla sua base una rimozione selettiva dei ricordi sgraditi – cosa che, in fondo, è nella natura stessa della nostalgia in generale -, ma piuttosto perché è inautentica, quando non eterodiretta per fini commerciali o per un pugno di like.
Proprio per questo motivo, ha raggiunto un certo grado di codificazione che ne permette la riproducibilità su larga scala, persino in politica. Non è forse anche retronostalgia la rivalutazione in chiave positiva della figura di Silvio Berlusconi da parte dei millennials di sinistra? Nessuno di loro, razionalmente, lo vorrebbe davvero di nuovo al governo. Ma il gioco di rimpiangere il passato dietro l’angolo, solo per il gusto di farlo, ha quasi preso il sopravvento sulla realtà. E si finisce davvero per crederci.
È un’ironia che distrugge il presente senza la pretesa di costruire nulla di migliore, perché è come se gridasse al mondo che avevamo già la felicità tra le mani e ce la siamo lasciata sfuggire, anche se non è vero.
Finiremo per rimpiangere qualcosa che è ancora in corso pur di assecondare il nostro desiderio di retronostalgia? Ci sono, in questo senso, indizi evidenti: siamo sulla buona strada.
Jacopo Di Miceli e Andrea Donna