Reportage da Lesbo: i profughi continuano a morire nell’Egeo

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Ero in un angolo di un cimitero polveroso sull’isola greca di Lesbo, e guardavo una madre seppellire il figlio. Quando dal baule di un’auto hanno tirato fuori il corpicino di un neonato avvolto in un lenzuolo bianco, la donna si è accasciata, gridando per la disperazione.
Il bimbo le era scivolato dalle braccia, cadendo nelle acque fredde dell’Egeo, mentre lei era in viaggio dalla Turchia per ricongiungersi al marito, che era già andato in Germania a cercare rifugio dalla guerra che sta devastando il loro paese, la Siria.

Suo figlio non sarebbe dovuto morire. Il tragitto dalla Turchia a Lesbo è breve e sicuro. Se volessi prendere il traghetto da Mitilene, in circa un’ora sarei ad Ayvalik, sulla costa turca. Per fare andata e ritorno mi basterebbero 30 euro.
Questo perché io sono inglese. Non sono siriana, afgana, palestinese, irachena, somala o eritrea.
Non sono costretta a mettere a repentaglio la vita pagando a un trafficante centinaia o addirittura migliaia di euro per poi ritrovarmi sul fondo di un gommone con altre 30 o 40 persone che fanno lo stesso identico tragitto.
Non sono costretta a chiudere gli occhi e pregare affinché io e i miei figli riusciamo ad arrivare dall’altra parte senza annegare.
Dopo una lunga estate di trattative per trovare una soluzione alla crisi nell’area mediterranea, di fatto, la politica europea di accoglienza versa ancora in questo stato.

MAREA CRESCENTE
Anche se gli Stati membri dell’UE hanno (in gran parte) accettato con riluttanza di ridistribuirne 160.000, i rifugiati sono tuttora privi di una modalità d’ingresso legale in Europa.
E senza alcuna speranza di una vita migliore in patria, migliaia di persone continuano a intraprendere questa traversata costosa, illecita e potenzialmente letale.
Ne conoscono i rischi, ma le acque sembrano comunque l’alternativa migliore.

La Turchia, pur offrendo protezione temporanea ai profughi siriani, non è tra i firmatari del Protocollo del 1967, che estende la tutela accordata dalla Convenzione sui rifugiati del 1951 a chi proviene da un paese extraeuropeo.
Ciò significa nessun diritto garantito all’occupazione, all’istruzione o all’assistenza sanitaria di base.
Le condizioni dei profughi siriani in Turchia sono ben documentate e, si sa, sempre più critiche. Non vi sono prospettive incoraggianti, nessuna speranza di un futuro migliore. Chi non proviene dalla Siria non ottiene nulla.

Un gommone sull’isola di Lesbo.In lontananza, le coste della Turchia. Foto dell’autrice.

E così vengono in Europa. Dall’inizio del 2015, a Lesbo sono sbarcate più di 250.000 persone, e altre ancora sono in viaggio. Solo a settembre ne sono arrivate più di 70.000 e, secondo L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM), a ottobre il numero è destinato ad aumentare.
Alcuni arrivano direttamente da Damasco, Aleppo e Dar’a; altri dai campi profughi di Giordania e Libano, dove le condizioni si sono inasprite al punto che molti stanno pensando di tornare nella patria devastata dalla guerra.
Ma i più vengono dalla Turchia, dove per mesi, se non per anni, hanno tentato invano di guadagnarsi da vivere.
Con l’inverno alle porte e l’arrivo delle notizie sulle recinzioni innalzate in Europa, chi è rimasto bloccato in Turchia o altrove avverte un rinnovato sentimento di urgenza, un desiderio febbrile di trovare una vita migliore, prima che sia troppo tardi. Ma il tempo sta per scadere.

 

RESPINTI
Fra poche settimane le acque saranno più fredde e agitate, e il rischio nell’attraversarle persino maggiore. Nel contempo, la Commissione Europea ha offerto alla Turchia fino a un miliardo di euro affinché migliori le politiche di “gestione integrata delle frontiere” e contrasti il traffico di esseri umani.

Dalla ricerca che sto conducendo insieme ai miei colleghi sulla crisi migratoria nel Mediterraneo, emerge che le autorità turche tentano di impedire ai migranti di accedere alla costa e che, se sono già in acqua, addirittura li respingono a riva, con conseguenze potenzialmente mortali.
Resoconti di respingimenti da parte delle guardie costiere turca e greca circolano già dall’estate del 2014, ma è quasi certo che aumenteranno. Nel frattempo, alcuni gruppi, tra cui Alba Dorata, organizzano ronde notturne in mare per danneggiare i barconi e impedire così ai migranti di raggiungere la salvezza sul suolo greco.
Ci si aspetta un forte aumento del numero di vittime. È dalla tragedia di Lampedusa dell’ottobre 2013, quando le acque italiane si presero 274 vite, che si chiede all’UE di fare “qualcosa”.
Da allora, nel tentativo di raggiungere l’Europa, sono morti in più di 6.000.


La tomba improvvisata di uno dei migranti morti nella recente traversata verso Lesbo. Foto dell’autrice.

Il neonato che ho visto seppellire non era la prima vittima, e di certo non sarà l’ultima. Due giorni dopo il suo funerale, ho trascorso una giornata sulle spiagge settentrionali dell’isola, dove approdano la maggior parte delle barche di profughi.
Poco dopo il mio arrivo, ho saputo che tre persone – una donna, un bambino e un neonato – erano annegate la sera prima, quando il loro barcone si era rovesciato in acqua.
Qualche ora dopo c’è stata una collisione tra un’imbarcazione della guardia costiera greca e un natante di legno con a bordo rifugiati siriani e afgani. La barca di legno è affondata. Sono morti almeno in otto. Nel cimitero di Mitilene non c’è quasi più spazio per seppellire i corpi.

La verità è che, fino a quando la loro patria sarà flagellata da conflitti e violazioni dei diritti umani, e finché verrà loro negata la possibilità di rifarsi una vita nei paesi raggiungibili via terra, queste persone continueranno a venire in Europa.
Se i leader europei vogliono davvero impedire che le vittime aumentino, dovranno dirottare i fondi destinati al controllo dei confini e concentrarsi, invece, sulle cause profonde della crisi.
Fino ad allora, una politica comune europea per l’asilo che fornisca concretamente protezione internazionale a chi fugge da guerre e abusi rimarrà una fievole speranza, e i profughi continueranno a morire.

Heaven Crawley (ricercatrice presso l’università di Coventry)
traduzione dall’inglese a cura di Alice Catti

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Nella foto di copertina: arrivo di gommoni su una spiaggia nei pressi di Eftalou, nel nord dell’isola di Lesbo. Foto dell’autrice.
L’articolo è stato originariamente pubblicato su “The Conversation“.

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