Sono passate ormai quarantotto ore dalla decisione di Matteo Renzi di “fare le scarpe” ad Enrico Letta. È una rottura molto forte, il “tradimento” di un sacco di promesse ribadite dal nuovo Segretario del Partito Democratico – il quale ha smentito se stesso, del resto, in merito a molte cose: la volontà di continuare a fare il Sindaco di Firenze; gli spergiuri riguardo la fedeltà a Letta; soprattutto, l’aver assicurato svariate volte di voler andare a Palazzo Chigi solo dopo aver vinto le elezioni, dunque senza una “manovra di Palazzo”.
Non dimentichiamo, infatti, che il clamoroso successo delle primarie non ha spostato una virgola dal punto di vista parlamentare rispetto ad un anno fa: mancavano allora i numeri per un “Governo Bersani” sostenuto solo dal centro-sinistra; mancano oggi per un “Governo Renzi” che parte dalle medesime premesse. Oggi come allora per governare sono necessari quantomeno i voti del Nuovo Centro Destra di Angelino Alfano (il quale certamente non mancherà – come sta infatti facendo – di far pesare il suo essere indispensabile).
Sorge dunque spontanea una domanda, anche nel più cocciuto antirenziano: ma chi glielo ha fatto fare? Perché Matteo Renzi si è infilato in questo ginepraio?
Probabilmente, la mossa di Matteo Renzi è un tentativo; senza dubbio, un tentativo avventato. Il Segretario del PD si è reso conto che i Palazzi di Roma sono pericolosissimi per l’immagine che lui ama dare di sé: il suo “story telling” è fatto di rapidità, di azione, di “fare” – soprattutto di fare. Tutti concetti che mal si coniugano con i tempi mastodontoci della macchina di Governo (specie un Governo di larghe intese, obbligato a lavorare con il misurino per accontentare una compagine complessa e molto litigiosa).
Facciamo l’esempio della legge elettorale: nonostante Matteo Renzi si sia fatto in quattro per presentare come una grande vittoria politica (una “sua” vittoria) il fatto di aver trovato in tempi rapidissimi: a) un accordo con gli alleati e b) una proposta condivisa, si è comunque dovuto scontrare con la dura realtà dell’attività parlamentare e costituzionale.
Renzi in quel caso “ce stava a provà”: ha presentato la riforma elettorale come un tassello di un pacchetto di riforme complesse. Ma nel pacchetto (nel pacco?) erano previste anche “cosette” come abolizione del Senato, superamento delle Province e modifica del Titolo V della Costituzione. Riforme che richiedono un’amplissima maggioranza, una maggioranza da avere e mantenere per lungo tempo in un Parlamento determinato a lavorare alacremente e senza intoppi sul punto. Almeno per un anno, ad essere proprio ottimisti.
Il (quasi ex) Sindaco di Firenze non ha tutto questo tempo. Anche e soprattutto perché durante il processo di riforme il Paese va comunque governato. La crisi continua a picchiare duro e i cittadini hanno bisogno di risposte: per la precisione, se le aspettano dal Partito Democratico, il quale ha la stragrande maggioranza alla Camera e la maggioranza relativa al Senato. Non solo: il PD esprime(va) pure il Presidente del Consiglio. Già, Enrico Letta, il convitato di pietra.
Per portare a casa le riforme di cui abbiamo parlato, e che Renzi fortissimamente vuole, bisognava “sfruttare” il Governo Letta, con il rischio che i meriti andassero a Letta stesso: a quel punto, sarebbe stato impossibile scalzare Enrico dalla sua premiership (morale ancora prima che parlamentare), e Matteo si sarebbe trovato a fare un lavoro che non gli piace, sa fare poco e gli viene male, il grigio dirigente di partito. C’è gente che è nata per scrivere musical, c’è gente che è nata per ballarli a Broadway; e Renzi, a torto o a ragione, si sente un ballerino, non uno sceneggiatore.
Dunque era del tutto impossibile per Renzi continuare a fare l’agente esterno all’esecutivo di Letta. Del resto, l’operazione di fare il partito “di lotta e di governo” fallì già con Enrico Berlinguer: con tutto il rispetto per Renzi, pensare che potesse farcela lui era quantomeno ottimistico.
Renzi si è perciò trovato in un cul de sac, obbligato a fare una scelta: ha fatto – come è il suo stile – la più rischiosa, la scelta d’attacco. Ha deciso di giocarsi il tutto e per tutto, non senza qualche buona ragione: lo straordinario successo alle Primarie dell’8 dicembre è una solida piattaforma da cui partire.
Ora siamo in ballo: lo è Renzi, lo è il PD, lo è il Paese. Il suo “all in” è definitivo: nei prossimi mesi, Matteo vince tutto o perde tutto. Potrebbe uscirne, tra qualche anno, come il vero homo novus della politica del nuovo secolo; oppure totalmente scornato, senza credibilità e alcun risultato ottenuto. In quel caso il PD sarà riuscito nel difficile compito di “bruciare”, per l’ennesima volta, un suo Segretario.
Domenico Cerabona
@DomeCerabona