
Il Cocoricò di Riccione resterà chiuso per 120 giorni per decisione del Questore di Rimini.
A parte il danno economico per l’azienda che gestisce la discoteca, i dipendenti a casa e il danno di immagine, il sillogismo che si legge tra le righe di questa sospensione della licenza è: “la droga fa male, la droga è al Cocoricò, se chiudiamo il Cocoricò la droga che fa male non c’è più”.
Non abbiamo bisogno di un esperto per capire che non sarà cosi: semplicemente i giovani andranno altrove, tanto per divertirsi quanto per farsi del male.
In tema di droghe, i messaggi “istituzionali” sono confusi e imperativi, ma non convincenti: ciò che si trasmette ai giovani è il postulato “la droga fa male“; ma non si fa chiarezza scientifica sui tipi di droga, sui diversi effetti, su quali sostanze facciano più male di altre, su quanto in genere gli stupefacenti sono dannosi e su come agiscano, sia a livello di nude sensazioni sia a livello di sintomatologia.
I ragazzi, i destinatari del messaggio, non ricevono grosse spiegazioni: non la devono usare e basta, ma il motivo resta loro oscuro. Nel frattempo, sono circondati da persone che ne fanno uso e sembrano divertirsi, stare bene senza troppe conseguenze.
Il messaggio è contraddittorio, cosi come è contraddittorio il fatto di chiudere il Cocoricò per la morte di un ragazzo.
Per mettere in atto questo provvedimento il Questore di Rimini ha rispolverato l’articolo 100 del Testo Unico delle Leggi sulla Pubblica Sicurezza, che risale al 1931.
In questo articolo si parla di “gravi disordini”, “ritrovo di pregiudicati o persone pericolose”, “pericolo per l’ordine pubblico”, “contro la moralità pubblica e il buon costume”: insomma, a scorrere la fattispecie è difficile che venga in mente subito una discoteca.
Il signor Cocoricò può dirsi tuttavia “fortunato” perché lo stop alla sua licenza durerà “solo” quattro mesi. Se tutto fila liscio, e se il suo portafogli gli permette di non lavorare per l’intera alta stagione, riapre.
Se questa morte fosse accaduta un anno fa il signor Cocoricò avrebbe rischiato guai più seri: un bel processo penale per agevolazione al consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope, che prevedeva una pena fino a 10 anni per chi consentiva l’uso di tali sostanze presso un locale pubblico o privato di qualsiasi specie. Situazione in cui si trovò il Rototom Sunspash, il festival reggae più grande d’Europa, nato in Friuli: 8 giorni di cultura rastafariana che attirava giovani e meno giovani dal nostro Continente e da tutto il Mondo. Contava oltre 100 mila persone, patrocinato dall’Unesco come evento del decennio per la cultura di pace e non violenza… infine immigrato vicino a Valencia, in Spagna.
Il motivo? Il reato di agevolazione al consumo di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui gli organizzatori sono stati accusati.
Si badi bene: gli organizzatori di quel festival non vendevano o cedevano droghe. Semplicemente, organizzavano un festival in un parco, dove si poteva campeggiare e dove qualcuno ha deciso di usare sostanze.
L’avviso di garanzia per il Rototom Sunspash è arrivato nel 2010, l’assoluzione nel 2015: in questo lasso di tempo il festival si è trasferito a Benicasim, dove c’è un clima meno ostile verso le feste in generale, e nessuno si sogna di poter punire un’attività economica solo perché “crea l’occasione” per la commissione di un reato (lo spaccio di stupefacenti). Nel frattempo in Italia è stata abolita la legge Fini-Giovanardi perché incostituzionale, ma non è stato abolito il clima di generale caccia alle streghe, che crea danni economici enormi a chi opera nel mondo dell’organizzazione eventi.
Così succedeva al Rototom, così è successo al Cocoricò: si è punito un comportamento giudicato astrattamente ed eticamente “sbagliato” (il drogarsi, per l’appunto) senza che esso fosse giuridicamente rilevante: sia al festival reggae sia nella discoteca adriatica avevamo condotte riconducibili all’uso personale, che giuridicamente non costituisce reato. E, senza uno straccio di prova, si può solo presumere che l’attività di spaccio (questa sì un reato) sia avvenuta all’interno dei luoghi “incriminati”: per quello che ne sa la Questura, la sostanza potrebbe essere stata benissimo venduta in spiaggia, al ristorante di pesce, dal benzinaio, o prodotta in casa dal consumatore. Eppure, tra sapere e non sapere, si è deciso di colpire un soggetto terzo (il gestore della discoteca) con la sola colpa di avere aperto il proprio locale.
Anche senza la Fini-Giovanardi, non è scemato il clima paternalistico e moraleggiante delle istituzioni.
Proibire è semplice, comporta un’unica azione. Educare è un’azione più complessa, vuol dire informare, supportare, trattare, prevenire, riabilitare, ridurre il danno, trovare alternative.
Qui, l’unica alternativa offerta è quella di andare a sballarsi liberamente dove più aggrada, basta che non sia più il Cocoricò.
Eleonora Ferraro & Umberto Mangiardi
@twitTagli