
Ormai è chiaro: siamo alle prese con un flashback storico che, tra suggestioni e antichi risentimenti, rischia di far scivolare il calendario della politica internazionale indietro di trent’anni – dritti nella logica di blocco e di polarismi di un secondo (ancora embrionale) capitolo di guerra fredda.
Il premier Vladimir Putin ha firmato l’annessione della neonata Repubblica autonoma di Crimea alla Federazione Russa, con un atto politico che segue di poche ore la mobilitazione di ingegneri ed esperti di settore per la costruzione di un ponte sullo Stretto di Kerch, che colleghi il territorio nazionale con la “nuova” regione indipendente.
Un sogno, quello del ponte sulla Crimea, che per i russi è l’equivalente del nostro ponte sullo Stretto di Messina: accarezzato già dallo zar Nicola II agli inizi del Novecento e segnalato successivamente nei desiderata della dirigenza sovietica, fino ad oggi sulla realizzazione di quest’opera avevano prevalso i forti timori delle amministrazioni centrali, preoccupate di finanziare un possibile “fondo nero” di corruzione e appalti truccati.
Ma ora non è più questione di giustizia e criminalità interna: la Russia vuole continuare a mostrare i muscoli, per intimorire gli Stati limitrofi dell’Europa orientale e per non perdere il turno di mossa con i rivali europei e statunitensi.
La crisi nata ad Est ora coinvolge del tutto anche l’Ovest, nel tentativo di recuperare terreno dopo i mesi di esitazione che hanno trasformato le proteste di piazza Maidan nell’opportunità di conquista da parte di Vladimir Putin.
In questi giorni Barack Obama e i vertici UE stanno comminando sanzioni personali a esponenti politici e uomini di business russi, nel tentativo di fare terra bruciata dentro al cerchio magico del premier nativo di San Pietroburgo – che ha comunque risposto con misure simili nei confronti di senatori USA non graditi a Mosca.
È un palliativo da manuale di marketing politico, che va d’altro canto a sommarsi al più rilevante congelamento degli accordi bilaterali attivati tra Russia e i singoli Stati occidentali, con la prospettiva sempre più concreta di un G8 ricostituito a sette membri.
Sotto alla superficie di quelle che restano manovre istituzionali, però, sul fronte occidentale si stanno muovendo i pezzi forti. Lo stesso giorno in cui la Crimea passava sotto il cappello del gigante russo, il presidente del Consiglio Europeo Hermann Van Rompuy e il governo ad interim ucraino hanno messo nero su bianco il primo accordo di cooperazione politica tra la nazione gialloblu e l’UE.
L’accordo, simile nello spirito a quello rifiutato qualche mese fa dal premier destituito Viktor Yanukovich, segna un punto concreto nella guerra di nervi dell’Est.
A rischio di confondere la politica estera con il risiko, bisogna rilevare che per una Crimea che passa sotto la “cortina russa”, c’è un’intera Ucraina che si schiera con l’Occidente.
Uno pari e palla al centro? Non proprio, perchè dopo il colpo di mano in Crimea le carte a disposizione di Vladimir Putin sembrano essersi ridotte al puro ricatto militare. Sembrano lontanissimi i tempi delle riunioni e dei sorrisi tra il premier di Mosca e i pari ruolo di Kazakistan, Armenia e Bielorussia.
L’idea, allora, era di scombinare il piano di allargamento dell’Unione Europea verso Est – che avrebbe comportato una riduzione dell’influenza russa e del rublo nelle regioni storicamente più legate a Mosca – per creare un’organizzazione modellata a specchio proprio dell’UE: era la proposta dell’Unione Eurasiatica, già paventata come una futura URSS a trazione putiniana, dove il rublo e la potenza energetica del partner dominante avrebbero promesso (almeno di facciata) una crescita comune ai Paesi aderenti.
Ora invece, perfino un autocrate tradizionalmente favorevole agli accordi sottobanco come Lukashenko comincia a nutrire dubbi sulle intenzioni del vicino più bellicoso: in Bielorussia l’8% della popolazione è di etnia russa, e di questi tempi il concetto di “protezione delle minoranze” – letto in chiave putiniana – potrebbe sciogliere anche il più vincolante degli accordi personali.
Qui si apre l’opportunità di azione dell’Occidente, sulla linea del potenziamento della cooperazione con le regioni più a rischio e della tutela degli istituti democratici già esistenti. La scarsa spendibilità politica della Russia dei carri armati, però, non limita gli alleati atlantici a questa semplice strategia di sostegno diplomatico all’area dell’Est Europa.
Di fronte ad uno scenario in cui perfino l’Estonia e la Moldavia (quest’ultima con il problema della regione separatista e russofila della Transnistria) iniziano a valutare i contorni di un’eventuale emergenza di carattere militare, torna in gioco il collaudato sistema di sicurezza della NATO.
Un’architettura, quella del Patto nord-atlantico, che in nome del proprio ruolo storico e degli interessi politici degli Stati membri si è perfino potenziata rispetto all’iniziale strategia difensiva opposta al blocco sovietico.
Ad essere perfidi, nei 25 anni che ci separano dalla caduta del Muro, la NATO è sempre più somigliata ad una scomoda reliquia della guerra fredda – secondo alcuni osservatori perfino colpevole di arrestare il cammino espansivo dell’Unione Europea in materia di sicurezza e difesa.
Durante crisi come queste, allora, il concetto di “pace” può essere applicato soltanto a questo tipo di polemiche istituzionali: perchè la NATO, da quasi-ostacolo formale e per quanto sede dell’interesse primario degli USA, resta ancora oggi la risposta più temibile nei confronti di qualsiasi minaccia all’asse euro-atlantico.
Come ribadito in una recente intervista da Anders Rasmussen, ex presidente danese e segretario generale dell’agenzia dal 2009, la fiducia su cui costruire una risposta comune a Vladimir Putin è contenuta nell’articolo 5 del Trattato Nord Atlantico, che impone la reciproca assistenza degli Stati aderenti in caso di attacco militare.
Il punto, aggiunge il segretario Rasmussen, è la libertà d’azione affidata agli Stati stessi, tenuti a difendere gli Alleati “nella misura in cui essi lo ritengono necessario”. A chi ravvisa in tale punto un sintomo di debolezza, il segretario generale risponde che la vaghezza della normativa è da intendersi come il miglior strumento di deterrenza a disposizione della NATO.
Usando l’immaginazione per uno scenario d’esempio, se domani la Russia invadesse l’Estonia e decidesse per l’aperta violazione del diritto internazionale, lo stesso Vladimir Putin non potrebbe conoscere in anticipo la contromossa della NATO: il mistero genera preoccupazione, e la preoccupazione dovrebbe prevenire i colpi di mano più avventati.
Ma la politica della NATO, al di là dell’azione psicologica, trova il proprio spessore sulla base di una straordinaria capacità di prendere decisioni e di fornire risultati concreti.
In questo senso, l’eco della disastrosa gestione a marchio europeo della crisi dei Balcani e del provvidenziale soccorso dell’Organizzazione degli Alleati si avvertono ancora oggi, proprio nel ritorno alla piena operatività delle strutture NATO: in queste settimane proprio gli Alleati hanno confermato un massiccio invio di caccia F-16 alla Polonia e di altrettanti F-15 agli stati Baltici, mentre sono intensificati i voli di ricognizione nei cieli della Romania e le operazioni navali sul Mar Nero.
In attesa di scoprire le prossime mosse della Russia e di capire fin dove la ratio politica di Vladimir Putin si confonda con la pura volontà di potenza, da questa parte del mondo si svolgono le prove generali in vista di un conflitto armato.
Seguendo il pensiero di Anders Rasmussen, la guerra si vince anche con le impressioni suscitate nell’avversario. E la si vince sopratutto se si arriva a non combatterla affatto: fino a quando esisterà una minaccia all’integrità territoriale degli Alleati e finchè non si potrà dare per scontato il rispetto dei diritti umani sul suolo del vecchio Continente, allora, sarà difficilissimo dare l’addio ad un’agenzia di tali capacità materiali e psicologiche.
Forse, in un quadro internazionale che minaccia il ritorno della spartizione del mondo secondo le logiche novecentesche dei blocchi, la scelta di rinunciare al sistema che ha garantito la prevalenza occidentale nel secolo scorso non sarà nemmeno possibile.
Matteo Monaco
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