Tra le varie escursioni in Leningrado previste dal programma della crociera, è quella più lunga, più stancante, con maggior chilometraggio (e costo). Di più, in questa forma, non si poteva proprio.
La sveglia inumana ci sbatte nel capannone con le scritte cirilliche che tanto sospiravo.
Mezz’ora per farsi mettere un timbro e per far sapere a un terminale che Umberto Mangiardi, italiano, sta entrando nella Grande Madre Russia.
Con la scusa di un altoparlante mal funzionante, ci appioppa una radiolina ciascuno, attraverso cui dirigerà la visita: e c’è chi trasogna un registratore, o un collegamento criptato col Kgb – e se non fosse solo paranoia?
Sabbia scialba, palazzi uguali e scrostati. Poi ecco una strada ferrata, mentre Marina racconta che i ponti sono levatoi, che si alzano all’una di notte, che se ti attardi non torni a casa e che se non torni a casa ti fanno storie.
Sul pullman gente che mai prima di oggi si era vista si scambia un’occhiata d’intesa: eh, ‘sti russi!
Invece la Neva è placida, scorre lenta e larga e accogliente, ci entrano gusci di noce e chiatte allestite a gasiera: un sottomarino di cinquant’anni fa è tirato in secca, la stella rossa è orgogliosa sulle lamiere invecchiate.
I nomi altisonanti, maestosi, regali: Fortezza di San Pietro e Paolo, Colonne Rostrate, Ammiragliato.
Meraviglia: devo usare questa parola.
Le associazioni di idee mi giocano un brutto scherzo. Macché Hermitage: io penso al ghiaccio, al metro di ghiaccio che ogni anno diventa il padrone, complici i 35-40 gradi sottozero cui l’aria è capace di arrivare – ma non sempre, ci rassicura Marina.
Sangue versato, immagine icastica di un rantolo, di un corpo straziato che vomita fuori il liquore più prezioso.
La naturale violenza di questa precisazione: San Salvatore la costruimmo qui, perché qui del nostro Zar fu rovesciato il sangue.
Le cipolle delle cupole sorprendono, stupiscono.
Una dorata, una altissima, una a prismi e piramidi, due in ceramica con colori che a un europeo mai verrebbero in mente: verde, azzurro, bianco.
Signori, state attenti al portafogli.
A San Pietroburgo “prospettiva” non è un angolo di visuale: significa strada, via, corso. Per la precisione è un viale largo e diritto, arioso e geometrico, su cui si affacciano palazzi eleganti, maestosi, solenni.
Prospettiva Nevskij è tanto ovvia da essere conosciuta dal dizionario di Microsoft Word – notoriamente poverissimo; è tanto complicata da richiedere forse settimane per comprenderla. Pretendere di farlo in pochi minuti è quasi offensivo.
Prospettiva Nevskij ed è nostalgia, per il freddo della Neva e per il freddo della guerra, con la cupola dorata dell’Ammiragliato ad affermar sé stessa.
San Pietroburgo non fa eccezione, con quella malinconia nostalgica che qui prende un colore diverso.
Avevamo bollato Marina troppo in fretta come una sciocca revanscista, nostalgica fine a se stessa. Mentre parla ci lascia intuire le sue categorie di ragionamento politico, dove Kruscev alla fin fine costruì le case per tutti; e i nostri due attuali
Marina aggiunge che la gente è povera, che un medico o un insegnante guadagnano tra i 200 e i 350 euro al mese, che la scuola russa – un tempo sorgente di menti superiori – è allo scatafascio, che la gente non può comprare casa, talvolta non può fare la spesa. Ma siamo sulla luna? Ma allora perché i prezzi non scendono se nessuno compra?
Mi liquida con la tiritera del “Paese strano”, io resto senza orizzonti.
Prima di visitare il Palazzo d’Estate (sarà stupendo), ci fermiamo in un ristorante a pochi chilometri dalla città. Qualche portata russa più che accettabile. Finiamo piuttosto in fretta, io e la mia famiglia torniamo al piano di sotto.
Le mette in borsa di nascosto, per portarsele a casa.
Fotografia alla Charles Dickens; mi viene sbattuta davanti agli occhi con violenta semplicità.
Dedicata a tutti quelli che sul pullman non avevano creduto a Marina. Io per esempio ero tra questi.