Prospettiva Nevskij

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Una sberla, più che una toccata e fuga. Rapida, violenta, di tutto e di più ché poi la nave salpa di nuovo. Suvvia: le cose che han poco senso son sempre meglio di quel che senso non ha, no?
Tra le varie escursioni in Leningrado previste dal programma della crociera, è quella più lunga, più stancante, con maggior chilometraggio (e costo). Di più, in questa forma, non si poteva proprio.
La sveglia inumana ci sbatte nel capannone con le scritte cirilliche che tanto sospiravo.
Mezz’ora per farsi mettere un timbro e per far sapere a un terminale che Umberto Mangiardi, italiano, sta entrando nella Grande Madre Russia.

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Marina è l’accompagnatrice designata, quarant’anni, capelli mori a caschetto stile inizio anni ‘90, occhi tra l’argento e il blu. Glaciale. Aggettivo scontato finché vi pare, ma è vera verità: l’ultimo suo sorriso se va bene sarà stato datato 1976. E fu comunque un errore. 
Con la scusa di un altoparlante mal funzionante, ci appioppa una radiolina ciascuno, attraverso cui dirigerà la visita: e c’è chi trasogna un registratore, o un collegamento criptato col Kgb – e se non fosse solo paranoia?
Sabbia scialba, palazzi uguali e scrostati. Poi ecco una strada ferrata, mentre Marina racconta che i ponti sono levatoi, che si alzano all’una di notte, che se ti attardi non torni a casa e che se non torni a casa ti fanno storie.
Sul pullman gente che mai prima di oggi si era vista si scambia un’occhiata d’intesa: eh, ‘sti russi!

 

La Neva sembra un fiume come tanti altri, di una serenità che imbarazza noi occidentali (perché è questo che siamo: occidentali) abituati ai Romanov trucidati, alle purghe staliniane, ai carri armati a Praga.
Invece la Neva è placida, scorre lenta e larga e accogliente, ci entrano gusci di noce e chiatte allestite a gasiera: un sottomarino di cinquant’anni fa è tirato in secca, la stella rossa è orgogliosa sulle lamiere invecchiate.
I nomi altisonanti, maestosi, regali: Fortezza di San Pietro e Paolo, Colonne Rostrate, Ammiragliato.

 

Sosta, foto da imbecilli, telecomandate. Quando il torpedone (se già “pullman” è cacofonico, “torpedone” è tanto brutto da essere quasi… abietto! Amen: qui dentro mi piace di più) riparte, mi accorgo che quel palazzone verde acqua sull’altra riva è il Palazzo d’Inverno.
Meraviglia: devo usare questa parola.
Le associazioni di idee mi giocano un brutto scherzo. Macché Hermitage: io penso al ghiaccio, al metro di ghiaccio che ogni anno diventa il padrone, complici i 35-40 gradi sottozero cui l’aria è capace di arrivare – ma non sempre, ci rassicura Marina. san salvatore sul sangue versato

 

San Salvatore sul Sangue Versato: un nome crudo. Come morirono i morti di questa città?
Sangue versato, immagine icastica di un rantolo, di un corpo straziato che vomita fuori il liquore più prezioso.
La naturale violenza di questa precisazione: San Salvatore la costruimmo qui, perché qui del nostro Zar fu rovesciato il sangue.
Le cipolle delle cupole sorprendono, stupiscono.
Una dorata, una altissima, una a prismi e piramidi, due in ceramica con colori che a un europeo mai verrebbero in mente: verde, azzurro, bianco.
Signori, state attenti al portafogli.

 

Prospettiva Nevskij. Fino a ieri era una canzone di Battiato, una di quelle che già solo per il nome mi pareva un esercizio di stile e basta; e per questo non volevo ascoltarla.
A San Pietroburgo “prospettiva” non è un angolo di visuale: significa strada, via, corso. Per la precisione è un viale largo e diritto, arioso e geometrico, su cui si affacciano palazzi eleganti, maestosi, solenni.
Prospettiva Nevskij è tanto ovvia da essere conosciuta dal dizionario di Microsoft Word – notoriamente poverissimo; è tanto complicata da richiedere forse settimane per comprenderla. Pretendere di farlo in pochi minuti è quasi offensivo.

 

Prospettiva Nevskij ed è già soggezione, per questo nome intuibile eppure straniero, intimamente straniero: chi mai a Londra o Madrid utilizzerebbe il concetto di “Prospettiva”?
Prospettiva Nevskij ed è nostalgia, per il freddo della Neva e per il freddo della guerra, con la cupola dorata dell’Ammiragliato ad affermar sé stessa.

 

 

Ora capisco i mille arabeschi della meravigliosa Prospettiva Nevskij (parlando della canzone): è questa la sensazione che si prova a veder un resto degli Zar, il sogno di Pietro Primo il Grande, e poi il Campo di Marte con la fiamma sempiterna per i giovani morti dell’armata rossa, e quindi la casa di un animo delicato come Tchaikowski, infine le boutique come Zara a fianco dell’emporio dell’Aeroflot.

Ecco perché quel ritmo innaturale, dissimmetrico nei toni, nella melodia: ecco il bisogno (perché diventa bisogno) di utilizzare versi ora più lunghi ora più corti, senza punti di riferimento: le vecchie coi rosari ci sono davvero, la grazia innaturale di Nijinskij è qui da qualche parte; anche se non so chi è davvero Nijinskij.

 

Tutto sa di inverno, nonostante i 37 gradi umidi che ci accompagnano. Marina mentre ci porta in un negoziaccio per turisti ci conferma che è davvero terribile e difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire: non abbiamo persiane perché vediamo talmente poco sole nell’anno da volerci prendere tutto quello che c’è in estate.

 

Fuggiamo dal centro, ci lasciamo alle spalle l’Hermitage (che diventa il mio personalissimo rimpianto principale) e digradiamo, in una discesa agli inferi qualsiasi. Ovunque le township esistono, curvano verso il basso come un declivio, lento e inesorabile man mano che ci si affaccia ai sobborghi.
San Pietroburgo non fa eccezione, con quella malinconia nostalgica che qui prende un colore diverso.

Se il palazzo del principe Yussupov (l’omicida del mostruoso Rasputin) si rammarica di non veder più le carrozze della nobiltà degli anni ’10 del ‘900, le piazze squadrate della prima cintura rivogliono l’Armata Rossa, e le parate, e i colonnelli, e la sicurezza che l’oppressione garantiva.
Avevamo bollato Marina troppo in fretta come una sciocca revanscista, nostalgica fine a se stessa. Mentre parla ci lascia intuire le sue categorie di ragionamento politico, dove Kruscev alla fin fine costruì le case per tutti; e i nostri due attuali 

Presidenti (“due” detto con una naturalezza imbarazzante) stan facendo il possibile perché il nostro alla fin fine è un Paese strano; e Eltsin fu soltanto un ubriacone burattino (in quest’ordine: evidentemente più ubriacone che burattino); soprattutto Gorbaciov, maledetto lui e il mondo che lo idolatra: se la nostra fine è stata varata come una nave, è stato lui a spaccar la bottiglia. Evidentemente era contento.

 

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Cambia la storia raccontata da un altro: l’eroe di Berlino Est (e non sono neanche due settimane che un berlinese mi ha detto ad occhi brillanti “Quanto amo Michail!”) a casa sua è un maledetto. 
Marina aggiunge che la gente è povera, che un medico o un insegnante guadagnano tra i 200 e i 350 euro al mese, che la scuola russa – un tempo sorgente di menti superiori – è allo scatafascio, che la gente non può comprare casa, talvolta non può fare la spesa. Ma siamo sulla luna? Ma allora perché i prezzi non scendono se nessuno compra? 

 

Marina mi guarda per quello che sono (e che resto): un piccolo capitalista occidentale.
Mi liquida con la tiritera del “Paese strano”, io resto senza orizzonti.
Prima di visitare il Palazzo d’Estate (sarà stupendo), ci fermiamo in un ristorante a pochi chilometri dalla città. Qualche portata russa più che accettabile. Finiamo piuttosto in fretta, io e la mia famiglia torniamo al piano di sotto. 

 

Al termine del pranzo, sulla veranda del ristorante, Marina fuma una sigarettaccia; la sua collega, più brutta, incarta goffa tre fette di pane, prese dal cestino sulla tavola dei suoi accompagnati.
Le mette in borsa di nascosto, per portarsele a casa. 
Fotografia alla Charles Dickens; mi viene sbattuta davanti agli occhi con violenta semplicità. 
Dedicata a tutti quelli che sul pullman non avevano creduto a Marina. Io per esempio ero tra questi.

 

Umberto Mangiardi

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