Percorsi biografico-musicali: N come… Nirvana

nirvana.jpg

Per il prossimo episodio lasciamo l’assolata bay area californiana e muoviamoci verso nord. Direzione Seattle, Washington. Nel mentre facciamo anche un piccolo balzo temporale, abbandonando la prima metà degli anni ’80 per i primissimi anni ’90.
Il passo è breve, ma lo scenario muta considerevolmente. Dalle ruggenti note metalliche che infiammano gli animi dei giovani metal kids passiamo a una scena attraversata da una gioventù annoiata, che ha scarsa cura di sé, che non ha niente di particolare contro cui urlare e che eppure vuole farsi sentire, che vuole apparire rivoltosa pur fondando la sua causa sul nulla.
La chiamavano, non a caso, generazione X.
Penso che il sottotitolo più adatto a questa nuova lettera dei percorsi potrebbe essere «Storie di ordinaria adolescenza». E sono certo che molti di voi capiranno il perché.

N come…NIRVANA

Vi consiglio: Nirvana, Nevermind
Tracklist: Smells Like Teen Spirit / In Bloom / Come as You Are / Breed / Lithium / Polly / Territorial Pissing / Drain You / Lounge Act / Stay Away / On a Plain / Something in the Way
Etichetta: Geffen Records
Anno: 1991

======================

Questa storia puzza di adolescenza. È purulenta come l’acne, fastidiosa come la forfora e ruvida come la prima barba incolta. È ambientata in lunghi pomeriggi annoiati, passati serrato in una camera che odora di chiuso e di sudore.
Troppo timido per decidermi a uscire con una compagnia, troppo desideroso di vivere per costringermi in prolungate solitudini. Intrappolato in questa empasse e in cerca di una qualunque valvola capace di far sfogare le ansie, le tristezze, le delusioni e le paure; capace di liberare l’energia che invece ricacciavo indietro, tentando di stare ben bene tra le righe e mai troppo fuori.
Questa è la mia storia, la storia di uno che ancora non aveva capito bene dov’era finito e in quale periodo di crescita si trovava, disorientato tra la fine delle medie e i primi giorni delle superiori.
Una storia che forse, chissà, non è solo la mia e in cui qualcun altro si sta riconoscendo.

Vivevo una fase di transizione della mia esistenza, costretto in vestiti che ancora andavo a comprare con mia madre (tra i pochi strappi alla regola un paio di Converse All Star rosse, così conformiste nel loro anticonformismo), accompagnato da un walkman mangiacassette e da una serie di nastri copiati in casa come mie sole armi contro il mondo.
La musica era da sempre stata il mio antidoto contro tutto, però le sensazioni che mi procuravano i vecchi ascolti pre-adolescenziali non mi bastavano più. Non che li amassi meno, ma avevo bisogno di qualcos’altro, magari che riuscisse a inquadrare e ad affrontare quella disagiata inadeguatezza che se ne stava sempre lì, appiccicosa sull’animo.

Quando andavo alle feste dei miei coetanei la questione musica era il mio cruccio, non avevo modo di adeguarmi sempre e comunque a quanto vi fosse in voga in quel periodo. [1] Ma c’era sempre qualche cosiddetto alternativo che cercava di spezzare il ritmo con qualche ascolto diverso.
Fu così che, del tutto casualmente, fui scosso da un brano che, come questa storia, puzzava di spirito adolescente.

Non era facile essere un ragazzo a cavallo tra XX e XXI secolo, figuriamoci quanto lo fosse sul finire degli anni ’80. Kurt Cobain è, a mio modo di vedere, la rappresentazione migliore di cosa intendesse Nietzsche quando sentenziò che fosse necessario avere il caos dentro di sé per generare una stella danzante. Mi si passi questa filiazione ardita che tenterò di argomentare.
Il giovane Cobain, classe 1967, è sconvolto dal divorzio dei genitori, ha problemi a relazionarsi coi suoi coetanei, non termina gli studi. L’unica cosa che lo tiene in vita e in cui può dar sfogo a sé stesso è l’arte, la musica nello specifico. Il nostro passa per ascolti tra loro diversissimi, si nutre principalmente di hardcore punk e di stoner, senza disdegnare dosi di hard rock e heavy metal, in un coacervo confuso e affatto omogeneo. Un vero e proprio caos di rumori e vissuti che aspettavano solo di essere scatenati.
Ma cosa si poteva inventare in un periodo in cui musicalmente il rock, e i suoi figliocci, avevano esaurito buona parte delle cartucce?

Quando Kurt incontra il bassista Krist Novoselic, con cui fonda il gruppo che assumerà poi il nome Nirvana, è l’inizio di una sperimentazione sonora che rappresenta – al momento – l’ultima grande rivoluzione musicale.
Stando alle biografie più accreditate della band [2] lo stile è inizialmente aspro e spigoloso, ma presenta già degli ammicchi a sonorità più catchy e pop.
Nelle periferie di Seattle, dove sta sorgendo una nuova e brulicante schiera di gruppi, Cobain e i Nirvana muovono così i primi passi verso la definizione di quel sound che ha già assunto il nome di grunge, ma che spetterà a loro consacrare. Ci vorrà l’innesto del batterista Dave Grohl nella formazione che, col suo stile poderoso e netto, fa compiere il passo definitivo dal “caos musicale” alla nietzscheana stella danzante.

Nel 1990 i Nirvana firmano con la David Geffen Company per registrare Nevermind, il loro primo album sotto un’etichetta major. La produzione è firmata da Butch Vig, ma il missaggio finale non è soddisfacente e la band assume Andy Wallace che, all’epoca, aveva legato il suo nome alle produzioni degli Slayer.
L’album esce nel 1991 e registra immediatamente un felice successo di vendite incontrando, cosa rara, contemporaneamente il favore della critica e del pubblico.
Il singolo di lancio, Smells Like Teen Spirit, divenne un vero e proprio inno generazionale e Kurt Cobain, suo malgrado, fu assunto a icona di quella che venne definita «generazione X». Quel semplicissimo riff, vera e propria sferzata di primordialità rock che urla e trasuda disagio da ogni poro, dette voce a quello che era un generale senso di disorientamento e estraniazione tra gli adolescenti di allora. Una generazione senza arte né parte, senza niente di particolare da dire, incapace di ritagliarsi un suo spazio nella crisi generale delle idee e delle rappresentazioni giovanili.

La cosa incredibile, a distanza di più di vent’anni, è come si sentano ancora gli effetti di quest’onda lunga e di quanto pervasivo sia stato il non-messaggio dei Nirvana.
Già, perché anche i testi di Cobain non avevano qualche particolare sentenza da offrire, qualche spunto di riflessione o qualche osservazione sul presente.
Immagini, storie e frasi senza legami apparenti vengono ora semplicemente giustapposte, Cobain letteralmente gioca con le parole e coi concetti secondo qualche malato ed ermetico automatismo liberatorio. [3] Solo chi ascolta può, se lo desidera, attribuire un senso ai testi, oppure può semplicemente alienarsi ulteriormente in questa sorta di nuovo dadaismo.

Il sound di Nevermind fu qualcosa di straordinariamente innovativo per la scena rock di allora per l’equilibrio trovato tra orecchiabilità e primordialità. Per chi veniva da radici hardcore punk e stoner, l’opportunità di virare verso il melodico e il pop avrebbe dovuto essere di fatto negata alla radice.
I Nirvana invece trovano la misura trasversale senza rinunciare ad alcuna delle due componenti e mantenendo, al contempo, uno stile semplice, lineare ed essenziale.
Alla violenza irruente di brani come Territorial Pissing, Breed e Stay Away, rispondono vere e proprie perle di infelicità melodica quali Polly e Something in the Way. Ma i risultati più alti si hanno nell’incontro-scontro tra i due approcci che avviene secondo insolite e particolari amalgame: in Lithium, ad esempio, alla nenia iniziale subentra uno strano ibrido tra l’urlo e la cantilena durante il refrain; nella seconda traccia, In Bloom, il pesante riff introduttivo fa subito posto a una strofa dimessa che rapidamente cresce per esplodere in un ritornello ficcante quanto orecchiabile; infine va citata l’immortale Come as You Are, un brano lento e cupo che conosce il suo apice in uno degli assoli più storti e rapaci che il rock abbia mai conosciuto.

Val la pena precisare che Cobain nell’approccio alla chitarra era praticamente identico al Cobain scrittore e che pertanto il rispetto di un anche minima tecnica era un mero optional.
Eppure era vero, profondo e penetrante quel modo di suonare, era qualcosa di comunicativo nella sua primordialità e nella sua ignoranza. Pertanto, almeno personalmente, ho sempre preferito un assolo fuori scala, disarmonico e rumoroso – come quelli del compianto Kurt – a quelli tecnicamente ineccepibili e mirabolanti di qualche virtuoso che non riesce però a impressionare nulla.

Incredibile notare come la musica dei Nirvana potesse avere ancora un fortissimo potere evocativo su di me, figlio di tutt’altra generazione e impantanato in tutt’altre problematiche giovanili.
Eppure lo spirito di Nevermind appare senza tempo e capace, oggi come allora, di parlare a una gioventù senza bussola e senza riferimenti, proprio come ha fatto con me a suo tempo. Anche da questo si misurano i capolavori. Ma Nevermind è inoltre ben lungi dall’aver esaurito il suo fascino su generazioni di musicisti che, ancora oggi, dichiarano di avere nei Nirvana un’imprescindibile influenza e che tributano il giusto onore alla memoria del defunto Kurt Cobain, piccola geniale mente malata che ha partorito tutto questo. Anche da questo si misurano i grandi artisti.

La cosa divertente, alla fine di questa storia, è che Nevermind è stato per me un acquisto tradivo rispetto alla sua scoperta. Un po’ come se lo avessi sempre avuto dentro, quel prorompente disagio, tanto da non aver bisogno di possedere fisicamente il disco. Però, quando finalmente lo acquistai, lo consumai letteralmente dai continui e instancabili ascolti.
Ho sviscerato quell’album come quell’album ha sviscerato me, le mie ansie, le mie tristezze, le mie delusioni e le mie paure. Eccola, anche se vecchia di un decennio, la famosa valvola di sfogo che stavo cercando. E, vi dirò, funziona sempre bene nonostante sia oramai vecchia di più di vent’anni.

doc. NEMO
@twitTagli


[1] A dirla tutta, salvo eccezioni, detestavo la musica della mia generazione. Cosa abbastanza regolare dato che i miei ascolti, come avete visto, retrodatavano ai classici del rock anni ’60-’70.
Inutile dire che ciò suscitava non poco l’ilarità generale nei miei confronti.

[2] Su tutte vi segnalo Everett True, Nirvana. La vera storia, Mondadori, Milano, 2008, e Michael Azerrad, Come as you are. Nirvana: la vera storia, Arcana, Roma, 2000.
[3] A conferma di ciò si può notare come lo stesso booklet dell’album non contenga i testi, ma solo alcune frasi estrapolate dalle diverse canzoni che – ancora una volta – vengono disposte secondo un ordine del tutto casuale che può benissimo a sua volta rappresentare un altro testo.

Post Correlati