Percorsi biografico-musicali: M come Metallica

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Ardua scelta la M: ma ho già rotto le regole una volta, e mi sono ripromesso di non farlo più. Fortunatamente il dubbio (stavolta tra più di due artisti) non è stato così dilaniante.
Dunque, eravamo arrivati nell’assolata Florida di inizio millennio con l’ultimo capitolo.
Stavolta vi faccio fare meno strada e vi porto direttamente dall’altra parte degli Stati Uniti, nella non meno assolata California. Torniamo perciò indietro di circa un ventennio, quando nella cosiddetta bay area andavano brulicando diverse band che stavano dando un contributo rivoluzionario all’heavy metal. La loro stagione e la loro area sono oramai entrate di diritto nella storia del genere: noi andremo a guardare la nascita di questa nuova scena, quando tutto era ancora possibile.
La mia biografia lo richiede e così pure la mia più grande passione musicale.

M come… METALLICA

Vi consiglio: Metallica, Ride the Lightning
Tracklist: Fight Fire with Fire / Ride the Lightning / For Whom the Bell Tolls / Fade to Black / Trapped under Ice / Escape / Creeping Death / The Call of Ktulu
Etichetta: Phonogram / Vertigo Records
Anno: 1984 (remastered, 1989)

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È incredibile come certe cose ti suggestionino senza apparente motivo. Ad esempio, vi ho già detto che alle bancarelle del mercato di San Lorenzo ho avuto i miei primi contatti con un certo tipo di immagini connesse alle band più note dell’asse metal-punk-rock. Un tappeto di felpe e t-shirt con i loghi più impensabili e dalle variopinte quanto evocative illustrazioni. Immaginate dunque un ragazzino immerso in questi colori e queste immagini senza averne (ancora per poco) la minima cognizione. Tra mostri, vampiri, scheletri, zombie, scritte sanguinolente e “messaggi poco edificanti” – che ancora non potevo cogliere – si stagliava spesso e volentieri un logo. Semplice quanto efficace. Metallica. Deve piacere, pensavo, questo Metallica: è sulle magliette di tutti. Ma che sarà? Un film? Un gruppo? Una trovata pubblicitaria? Ci volle del tempo per capire.

Salto in avanti. Negli anni delle superiori, chi mi ha seguito fin qui già lo sa, scopro l’heavy metal e inizio a documentarmi. La fame è tanta. Sui primi libri che mi compro il nome dei Metallica (ok, sono un gruppo: sciolto il dilemma) è di quelli che contano; eppure quelle poche volte che li avevo beccati nelle mie nottate bianche a guardare Superock non mi avevano detto granché. Erano i tempi di I Disappear [1], giusto per intendersi. Ma piacevano tanto, e persino un’amica di mia sorella li aveva tra i suoi gruppi preferiti. Dopo l’estate in cui mi ero letteralmente divorato buona parte della discografia dei Maiden, me ne torno a Firenze comprensibilmente senza quattrini. Ergo, ancora niente Metallica per le mie orecchie.

Poi a scuola conosco David, metallaro ben più navigato, che inizia a doppiarmi musicassette su musicassette (eh già, si usava così) . Arriva il momento in cui gli domando con noncuranza: «Hai niente dei Metallica?» Gli avessi offeso la mamma si sarebbe infuriato meno. «Perché, tu non hai mai ascoltato niente dei Metallica?!?»
Gli spiego la storia che vi ho appena raccontato. Lui si batte una manata sulla fronte e mi fa, con un tono a metà tra lo sconcertato e il risentito: «Domani a ricreazione ci vediamo qui e risolviamo quest’empietà». L’indomani mi arriva con una musicassetta originale dei Metallica. Pezzo rarissimo, mi dice, non ha avuto tempo di copiarmela. Ma non importa, devo ascoltare. Ovviamente deve tornare integra, sana e salva. E fu così che mi capitò per le mani
Ride the Lightning.

Arrivo a casa con l’avidità di un affamato persosi nel deserto per settimane. Ho una montagna di compiti per l’indomani. Chissenefrega. Metto su la musicassetta e mi metto in poltrona, trepidante. Il primo pezzo si chiama Fight Fire with Fire, promette bene. Ma parte un lento di chitarra acustica che mi lascia disorientato. E che sarebbe questa, la travolgente furia distruttrice dei Metallica tanto decantata? Tempo pochi secondi… e il pezzo subisce una brusca inversione che mi fa schizzare in piedi: la travolgente furia distruttrice di cui sopra si scatena.
Non c’è tempo per pensare: la testa sta già volando in un forsennato
headbanging. È andata. Oramai ci sono dentro e non voglio più uscire.

Pare incredibile che un disco come Ride the Lightning sia stato partorito da delle menti che avevano da poco sorpassato la ventina d’anni.
Val la pena, a questo punto, fare un altro salto indietro. Un ragazzino danese, promettente tennista con una passione smodata per il rock e per la New Wave Of British Heavy Metal, si trasferisce con la famiglia negli Stati Uniti e si mette in testa di suonare la batteria. Incontra un chitarrista che, come lui, è entrato in fissa per la scena musicale partorita dalla Gran Bretagna di fine anni ’70: l’heavy metal e il punk rock. Lars Ulrich e James Hetfield fanno amicizia. Il mix è letale e ce n’è abbastanza per riscrivere le regole di una musica in piena fase espansiva. La formazione iniziale della band vede tra l’altro alla chitarra un certo Dave Mustaine, che sarà poi fondatore dei Megadeth.

Incidono la prima demo, iniziano a suonare in alcuni locali della bay area californiana, incontrano il sound del nascente hardcore punk americano – molto più veloce e ruggente rispetto a quello inglese. Durante la gavetta entra nella band Cliff Burton al basso mentre, prima di iniziare le registrazioni del primo LP, Mustaine è cacciato dal gruppo per essere rimpiazzato da Kirk Hammett. Questo insieme di esperienze confluisce nel disco d’esordio, Kill’em All (1983), una «perfetta fusione tra furia punk e sonorità vicine alla NWOBHM» [2], un «clamoroso manifesto della musica thrash» [3].

Già, i Metallica forse non se ne rendevano conto ma stavano dettando i capisaldi di quello che sarebbe stato uno dei principali sottogeneri del metal, il thrash metal appunto. Ma allora non c’era un nome per descrivere ciò che il quartetto di San Francisco stava creando: si parlava di speed metal per via della sua velocità smodata, frutto dell’incontro tra hardcore punk e heavy metal [4].
Quell’esordio, primordiale e diretto come un pugno nello stomaco, trovò nei Metallica degli interpreti formidabili; e i metal kids premiarono questa novità. Tutto crebbe così rapidamente che – c’è da credere – neanche i nostri debbano essersene pienamente resi conto.

L’anno dopo esce con Elektra Records Ride the Lightning, un disco che affila la già penetrante lama dei Metallica: c’è più testa, più tecnica, maggiore maturità, senza con ciò sacrificare nulla in termini di energia e di violenza. Come se un brutale massacratore si fosse trasformato, con l’esperienza, in un più letale ed efficace assassino.
Ma eravamo rimasti allo sconcerto provocato dalla traccia d’apertura. Fight Fire with Fire, per restare nella nostra metafora, è la rappresentazione del passaggio dalla brutalità alla spietatezza. Mantiene quell’approccio rude e istintivo degli esordi, assai debitore del punk e dell’hardcore, convogliato però in un granitico muro sonoro più accorto e studiato, che gli conferisce una pienezza e una violenza ancora sconosciute per il sound Metallica.

Tutto quello che viene dopo è la maturità, una maturità appena abbozzata, con molti angoli da smussare, ma dannatamente verace e viscerale.
Sono due i pezzi che probabilmente meglio di tutti esemplificano questa nuova fase di maturazione. Il primo è la title-track [5], una vera e propria cavalcata su un fulmine, dimostrazione di quanto la violenza possa essere incanalata in un sapiente alternarsi di momenti e di atmosfere. Il secondo è la mitica Creeping Death, meno varia ma comunque furente, incisiva e scatenata nella sua quadratura del sound e del songwriting. In entrambi i pezzi emerge peraltro l’abilità solistica di Hammett, capace di sfoderare interpretazioni energiche e ficcanti al di là delle sue doti di tecnica “pura” [6]: l’approccio alla chitarra è ancora abbastanza sporco e rude, ma è proprio questo a conferire grande comunicatività alle diverse soluzioni trovate.

Vivida e corposa è anche l’immortale For Whom the Bell Tolls, liberamente ispirata al classico di Hemingway, dove spiccano invece la presenza del mai abbastanza compianto Burton e dei suoi indovinati arrangiamenti di basso. Escape, forse il punto più debole del lavoro, mantiene comunque alto il tiro, mentre assai ispirata è Trapped Under Ice dove ritroviamo di nuovo un evidente sostrato hardcore/punk.
La malinconia di Fade to Black è invece un’altra grande prova di maturità, coi Metallica che dimostrano di essere capaci di misurarsi anche con la melodia e con atmosfere più rarefatte e sommesse; anche quando il sound esplode, durante il ritornello e nello sviluppo finale, mantiene comunque quell’atmosfera di cupo malessere che permea l’intero brano. Tra parentesi, altra pregevole prova di Hammett al solo.

Infine,
vero fiore all’occhiello del secondo album dei nostri è la traccia conclusiva, la monumentale The Call of Ktulu. Ancora una volta un riferimento letterario, ossia uno dei racconti più noti di Lovecraft [7] che pare fosse stato introdotto al gruppo grazie a Cliff Burton. Questa traccia, che reca la fortissima impronta di Burton, è simbolicamente la chiusura del cerchio, il trampolino verso la maturità stilistica.
Pezzo arduo, lungo, multisfaccettato, violento e al tempo stesso studiato per evocare i paesaggi persi nel minaccioso e megalitico passato immaginato da Lovecraft. A tratti alcuni suoni prodotti dalle chitarre sembrano mimare i ruggiti del mostruoso mastodonte tentacolare, quei ruggiti che vengono dagli abissi della sua dimora a R’lyeh; ma in generale l’intero brano, attraverso uno studiato accostamento di episodi e di atmosfere, impressiona perfettamente le pagine del racconto lovecraftiano. Soprattutto nel tremendo e drammatico finale che pare rappresentare il mostro «viscido e torreggiante» mentre emerge «nell’aria appestata di quella città di follia». [8]

Col senno di poi, considerare quanto i Metallica abbiano contribuito allo sviluppo originale del metal, quanto ancora oggi siano irrinunciabili per qualsiasi metallaro che possa chiamarsi tale, non fa che aumentare il loro potere suggestionante. Il tutto, ripeto, avviene quando i nostri hanno da poco sorpassato la ventina – ed è sconcertante prendere atto di quanto questi quattro ragazzi abbiano rivoluzionato e riscritto un genere che era già rivoluzione.
Poi, per carità, possiamo parlare per ore della loro opinabile quanto brusca virata di stile e dell’altrettanto rapido inaridirsi della vena compositiva. Un po’ come se si fossero tenuti i colpi migliori tutti all’inizio, i nostri hanno mancato in effetti un colpo dietro l’altro dagli anni ’90 in poi. Bene, ammesso e concesso tutto questo, restano quei mitici quattro pezzi da novanta piazzati come megaliti intoccabili nella storia del genere.
E su questo, almeno per me, c’è poco da discutere. 

Quanto a me, non è semplice spiegare cosa i Metallica – e Ride the Lightning in particolare – rappresentino nella mia vita. Certamente sono stati un capitolo determinante nel mio “romanzo di formazione” musicale: il loro portare alle estreme conseguenze il sound heavy britannico, coniugandolo con l’hardcore/punk, ha certamente stuzzicato profondamente quell’insieme confuso di primordialità e di potenza che avevo bisogno di liberare. L’energia che sono ancora capaci di liberarmi quando irrompono nelle mie orecchie è sempre la stessa, anche a distanza di più di dieci anni.

E dunque perché Ride the Lightning e non, ad esempio, il più maturo e storico Master of Puppets, o il più ignorante e viscerale Kill’em All? Proprio perché se ne sta lì nel mezzo, tra la completezza e l’abbozzo, mantiene allo stesso tempo la furia cieca delle origini e la sapienza della maturazione, equilibra violenza e calcolo, rabbia e atmosfera.
È questo il “mio” metal, quello che preferisco: «burning in my brain, I can feel the flame».

doc. NEMO
@twitTagli


 

[1] Ancora una volta, colonna sonora di Mission: Impossibile II. Non c’è niente da fare: film d’azione seminale per la mia generazione.

 

[2] Metallus. Il libro dell’heavy metal, a cura di Luca Signorelli e della redazione www.metallus.it, Giunti, Firenze, 2001, p. 117.

 

[3] California, a cura di Roberto Caselli e Aldo Pedron, Editori Riuniti, Roma, 2000, p. 90.

 

[4] Un altro termine che pare fosse molto diffuso era quello di power metal, per via della maggior carica di energia e di violenza riconoscibili nel nuovo sound dei gruppi della bay area. Successivamente il termine power metal è stato utilizzato per descrivere tutt’altra wave musicale.

 

[5] In questa traccia, come nella conclusiva The Call of Ktulu, c’è ancora lo zampino di Mustaine, che compare infatti nei credits. Facile che questi due pezzi fossero dunque già in gestazione prima del 1983, quando Mustaine fu sostituito da Hammett.

 

[6] Non parliamo di tecnica, per carità! I detrattori dei Metallica son sempre dietro l’angolo, sia mai che trovassero da ridire. E stiamo parlando di Kirk Hammett, figuriamoci se avessimo provato a dire qualcosa sullo stile di Lars Ulrich. Intanto i nostri hanno insegnato (e continuano a insegnare) a generazioni di metallari e non, ma questo ovviamente non conta niente. 

 

[7] Si tratta, appunto, del racconto The Call of Chtulhu, scritto nel 1926 e pubblicato su «Wired Tales» l’anno successivo.

 

[8] Howard P. Lovecraft, Il richiamo di Chtulhu, in Idem, Tutti i racconti. 1923-1926, a cura di Giuseppe Lippi, Mondadori, Milano, 1990, p. 179. 

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