Percorsi biografico-musicali: J come… Judas Priest

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Ho fatto appena in tempo ad asciugare le ultime lacrimucce di commozione ricordando il giovane metallaro che fui, che mi ritrovo a scorrere i titoli della mia personale collezione di dischi. Scelta semplice la prossima lettera, senza storia. Peraltro ci permette non solo di restarcene nella cara vecchia Inghilterra ma anche di restare nel solco musicale che ha segnato la mia adolescenza.
Dunque con uno spostamento minimo, e rigorosamente in moto, ce ne andiamo da Londra a Birmingham. Abbigliamento consigliato: divisa di pelle nera (giubbotto e pantaloni), esibizione di diversi kg di metallo (in borchie, catene, anelli, etc.), occhiali da sole, anfibi. Così, in perfetto e integrale stile da metalheads, andiamo alla scoperta di un’altra di quelle realtà che ha saputo incarnare ed interpretare nel migliore dei modi questo fenomeno. Un nome indiscutibilmente impresso nella storia del metal.

J come…JUDAS PRIEST

Vi consiglio: Judas Priest, Painkiller
Tracklist: Painkiller / Hell Patrol / All Guns Blazing / Leather Rebel / Metal Meltdown / Night Crawler / Between the Hammer & the Anvil / A Touch of Evil / Battle Hymn / One Shot at Glory / Bonus Tracks: Living Bad Dreams, Leather Rebel (live)
Etichetta: Columbia/Sony
Anno: 1990 (digitally remastered, 2001)

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Cosa accade a un sedicenne che si è appena preso una cotta per gli Iron Maiden e che inizia a scoprire le terre del metal? Inizia a peregrinare per negozi di dischi, ovviamente.
Si pianta alla sezione rock/metal, la scorre con avidità, individuando nomi e titoli che si appunta coscienziosamente. Si compra un’opera omnia [1]sul metal che si studia per conto proprio, cercando di orientarsi come può in un mare ancora sconosciuto. Traccia nella mente confuse mappe concettuali, cerca di immaginare come possano suonare certi gruppi (perché non è detto che il gestore del negozio sia sempre in buona e che permetta di ascoltare anche solo un estratto di un disco), tiene da parte i soldi della paghetta perché vuole comprarsi qualche bel disco da collezione [2].

Così, progressivamente, inizia a riempire la sua mensola vuota di perle e pietre miliari, ognuna rinchiusa nel proprio scrigno. L’orecchio si forma, il gusto si approfondisce, lo stile muta con l’attitudine. Ma non mancano mai le sorprese e, nel mio caso, una delle più grandi sorprese portava un marchio ben preciso: Judas Priest.
I Judas Priest sono quel tipico gruppo pioniere che non ti aspetti. Fatti rientrare ecletticamente nel fermento della New Wave Of British Heavy Metal (N.W.O.B.H.M.) per il loro mitico e seminale British Steel (1980), a guardar bene si tratta di un gruppo di veterani: la fondazione risale all’anno 1969 in quel di Birmingham e l’esordio discografico al 1974.

Partiti con uno stile hard rock pesantemente influenzato dal blues e dalla scuola dei Black Sabbath, i Judas Priest semineranno nel tempo molti dei germi virulenti che andranno poi a costituire l’ossatura della N.W.O.B.H.M
Nei quattro anni che vanno dal 1976 al 1980 i nostri appesantiranno in maniera accentuata il proprio sound hard: saranno tra i primi a inserire la doppia cassa, nonché tra le prime band del genere a giocare su una coppia di chitarristi (la premiata ditta K.K. DowningGlenn Tipton) e sui loro fraseggi per caratterizzare il proprio stile. Anche il look da bikers, tutto cuoio e borchie, sarà in seguito un must per l’abbigliamento e lo stile dei cosiddetti metallari.

Quanto detto fin qui, è bene ribadirlo, avvenne ben prima dell’esplosione della mitica N.W.O.B.H.M., che pure i Priest attraverseranno con grande stile rimanendo sempre, costantemente sulla cresta dell’onda. Tanto che nel 1990, quando la stagione heavy metal è oramai tramontata e il testimone è passato a ben altri lidi, i nostri se ne escono con un’altra pietra miliare che aumenta esponenzialmente la potenza del loro sound e dà un’altra grande e immortale lezione all’intero panorama metal.

La mia scoperta dei Judas Priest avvenne proprio con Painkiller, il disco del 1990 in questione.
Sebbene fossi in cerca di lavori precedenti e concernenti la stagione della consacrazione degli anni ’80, quel fortunatissimo giorno mi imbattei nel suddetto disco. Lo comprai a scatola chiusa, sulla fiducia, una cosa che ho fatto diverse volte senza mai pentirmene troppo spesso. Mi avventurai, del tutto inconsapevole e ignaro di cosa mi aspettasse, all’ascolto. La tellurica sfuriata di batteria che introduce la favolosa e inossidabile title track mi inchiodò letteralmente al divano. Superati i primi secondi di shock, mi ritrovai al centro di camera mia a fare dell’headbanging forsennato (chiaro gesto di appezzamento) esaltato da tutto quello stridere metallico delle chitarre e dalla dilagante energia del brano, adeguatamente sottolineata da un’interpretazione vocale tra le più ficcanti del mitico frontman Rob Halford.

L’intero album non mi lasciò un attimo di pausa, un vero e proprio tripudio di violenza e di ferocia dall’inizio alla fine. Di fatto le caratteristiche fondamentali che rendono Painkiller unico e inimitabile nella carriera dei Judas Priest sono due (per stessa ammissione dalla band):

  • l’ingresso dietro alle pelli di Scott Travis, «il batterista più potente, compatto e preciso che i Priest abbiano mai avuto» [3], che portò alla band una sapienza tecnica per i tempi quasi inaudita e che appesantì ulteriormente il sound con le sue mitragliate di doppia cassa;
  • il produttore Chris Tsangarides, profondo conoscitore del metal, che dette all’intero disco la quadratura giusta [4].

Il prodotto, del tutto inaspettato da parte di una band con vent’anni di carriera alle spalle, aprì nuove porte ai Priest che intrapresero un tour mondiale che li portò per la prima volta in America Latina (per la precisione al mitico festival Rock in Rio) e nell’Europa dell’Est all’indomani della calata della «cortina di ferro». L’estate del 1991 fu invece segnata dal tour Operation Rock and Roll negli U.S.A. e in Canada, con Alice Cooper e Motörhead.
Non male per un gruppo che avrebbe in seguito abbandonato le scene per i successivi sette anni.

Ora, se si ha avuto la fortuna/sfortuna di essersi appassionati all’heavy metal, Painkiller rappresenta una vera e propria goduria, un sollazzo di puro metallo.
Non ci sono mezzi termini: l’heavy metal, prima di allora, non era mai stato così pesante. Il già citato ingresso di batteria della title track è Vangelo, come del resto tutto il pezzo: lo slide fischiante che introduce l’irresistibile potenza trascinante del riff principale, gli strilli di Halford a scandire un testo che per le immagini evocate esalterebbe Marinetti e tutto il gruppo dei futuristi, il crescendo devastante del bridge che ci accompagna fino all’esplosione del clamoroso assolo di Glenn Tipton, il finale infinito ed esplosivo. Più di sei minuti di amplesso per le orecchie di ogni appassionato di metal che si rispetti.

Sottolineate dal drumming ficcante di Travis e dai convenevoli della premiata ditta Downing – Tipton, le successive tracce non sono affatto da meno: Hell Patrol e All Guns Blazing dimostrano quanto l’heavy metal potesse essere ancor più heavy di quanto non fosse mai stato, ma è probabilmente con Leather Rebel (sorta di testo-manifesto della cultura biker) che si tocca l’apice in questo senso. Non prima di essere stati travolti dal duello chitarristico tutto tapping stridenti di Metal Meltdown, altro esuberante orgasmo di sound feroce in inarrestabile crescendo accompagnato da un testo evocativo e distruttivo.

Se si resiste allo strapotere di questa mastodontica potenza senza controllo, si arriva a Night Crawler e al suo irresistibile refrain, ma saremo ulteriormente sottoposti a un’incredibile valanga di energia vulcanica con Between the Hammer & the Anvil. Quest’ultima ha un enorme potenziale, ricordo distintamente (e ci sono testimoni che lo possono confermare) come persi letteralmente la testa al semplice accenno dell’introduzione di questo pezzo durante il Gods of Metal del 2008.

Ci concederà una “pausa” A Touch of Evil, secondo singolo estratto dall’album alla cui composizione partecipò lo stesso produttore Tsangarides: il pezzo, pur mantenendosi sugli standard metal del disco, smorza l’esuberanza fin qui sperimentata, aprendosi a soluzioni melodiche e arricchendosi con i preziosi synth suonati dalla leggenda Don Airey. Da rilevare in questo pezzo la straordinaria performance interpretativa di Halford che raggiunge picchi considerevoli, specialmente nella chiosa dell’ultimo pre-chorus.

C’è giusto il tempo per la breve parentesi strumentale di Battle Hymn che prelude all’eroica ed epica conclusione di One Shot at Glory. Si chiudeva così, nel 1990, l’ennesima scarica di mitraglia dei Judas Priest destinata a far scuola. Un disco perfetto, senza un’ombra.
Nella versione rimasterizzata compare anche una struggente power ballad davvero riuscita, Living Bad Dreams, registrata durante le sessioni del ’90 ma mai inclusa nel disco. La stessa band, a distanza di un decennio, non sapeva spiegare perché non avesse incluso un pezzo del genere nell’album: «Why we decided not to release this track is still a mystery to us as we feel it too would have been destined to become a Classic!» [5]. Misteri.

Judas Priest line up

Nella mia formazione musicale e personale il vecchio “Prete” inglese ha giocato un ruolo determinante. Affiancandosi praticamente da subito ai paladini Maiden, ha confermato il mio passaggio all’area dell’heavy metal, quella passione viscerale e profonda che ancora è in grado di torcermi le budella. A distanza di tempo non posso non restare ancora di sasso davanti all’energia e all’intensità sprigionate da questo disco all’inizio degli anni ’90, specialmente considerando che i Judas Priest avevano già fatto abbondantemente la propria parte nello stabilire i dettami stilistici di un genere in formazione tra fine anni ’70 e inizio anni ’80.

E oggi come allora resto sempre per un attimo inchiodato appena sento partire quello sconvolgente assolo di batteria che apre Painkiller, prima di lasciarmi travolgere da tonnellate di “metallo (estremamente) pesante”. Una valanga bollente, studiata fin nel minimo dettaglio, violenza adrenalinica, stridente pesantezza, energia allo stato puro. Insomma tutto ciò che l’heavy metal dovrebbe essere.
Il sedicenne di allora non poteva chiedere niente di meglio. E anche il quasi ventisettenne di adesso.

doc. NEMO
@twitTagli


 

[1] Trattasi del già citato Metallus. Il libro dell’heavy metal, a cura di Luca Signorelli e della redazione www.metallus.it, Giunti, Firenze, 2001.

 

[2] Ai giorni nostri il suddetto neofita si pianterebbe verosimilmente su Spotify e/o su YouTube, attaccherebbe BitTorrent o qualunque altro programma atto a scaricare musica, inizierebbe a fare ricerche sfrenate su Google mentre magari chatta su Facebook in qualche gruppo dedicato ad appassionati di musica metal. Prodigi che a me non sono toccati.

 

[3] Judas Priest, in Metallus cit., p. 96.

 

[4] Vedi Judas Priest, in Painkiller, CD booklet, Columbia/Sony, 2001, p. 2.

 

[5] Ibid. Traduzione: «Il motivo per cui decidemmo di non pubblicare questa traccia è ancora un mistero per noi dal momento che sentivamo che anch’essa sarebbe stata destinata a diventare un classico!»

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