Percorsi biografico-musicali: D come… Dropkick Murphys

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La D di questo percorso attraverso le lettere, i gruppi, i dischi e la mia formazione musicale, rappresenta una novità: è la prima in cui non figuri un caposaldo della storia della musica rock. Facciamo dunque un salto dall’Inghilterra agli Stati Uniti d’America. Per la precisione andiamo verso Boston…ma mentre ce ne andiamo dall’isola inglese, attraversiamo fugacemente la vicina Irlanda. Ci farà comodo per capire le radici e il sound del gruppo di cui andiamo a parlare.

D come… DROPKICK MURPHYS

Vi consiglio: Dropkick Murphys, Do or Die
Tracklist: Cadence to Arms / Do or Die / Get Up / Never Alone / Caught in a Jar / Memories Remain / Road of the Righteous / Far Away Coast / Fightstarter Karaoke / Barroom Hero / 3rd Man In / Tenant Enemy #1 / Finnegan’s Wake / Noble / Boys on the Docks (Murphy’s Pub Version) / Skinhead on the MBTA
Etichetta: Hellcat
Anno: 1998

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Ve lo avevo detto che avreste dovuto, prima o poi, aspettarvi delle sorprese in questo percorso biografico e musicale. Eccoci alla prima. Capisco che dopo tre lettere che hanno visto il trionfo di grandi classici questa scelta alla D possa lasciare perplessi. Ma la pregnanza biografica che hanno per me i Dropkick Murphys supera di gran lunga quella di altri mostri sacri che si sarebbero potuti trovare in questa lettera (Deep Purple, the Doors, Dylan, etc). Ma andiamo al sodo.
Con le prime tre lettere non mi sono dilungato sulla storia delle band prese in esame in quanto arcinote. Con questi ragazzi di Boston non posso fare altrettanto, dunque eccone un brevissimo profilo: nati nel 1996 come quartetto, i nostri hanno interpretato – fin dagli esordi – un originale mix tra punk, hardcore e musica folk celtica. Successivi cambi di formazione[1] ed evoluzione del sound hanno portato a un allargamento della line-up che conta attualmente sette elementi e un vasto arsenale di strumenti della tradizione celtica e irlandese (tra cui cornamusa, banjo, bodhràn, fisarmonica, tin whistle, etc). Con otto album in studio all’attivo e una devastante continuità a livello di show e apprezzamenti, i Dropkick Murphys rappresentano a oggi uno dei gruppi di punta della scena punk internazionale.

Bene, fine dei convenevoli, cominciamo l’excursus. Scoprii i Dropkick Murphys che ero un ragazzino di neanche sedici anni grazie a un cd promozionale del 2002 della Epitaph, etichetta punk indipendente fondata dal chitarrista dei Bad Religion. Nel disco, distribuito gratuitamente a un vecchio negozio di dischi di Firenze,[2] la traccia numero undici era la rivisitazione (stupenda peraltro) della tradizionale irlandese The Wild Rover suonata dal vivo alla festa di St. Patrick a Boston.
Amore a primo impatto: la gioiosità della musica folk celtica incontrava quella festosità fraterna incarnata da certo Oi![3] di vecchia data, entrambe accomunate dal fatto di saper accrescere il proprio potenziale in maniera direttamente proporzionale al tasso alcolico. Inoltre il fatto che i componenti del gruppo (e, credo, una buona fetta del pubblico presente) fossero di origini irlandesi, rendeva l’interpretazione ancora più sentita e vivida. Avrò canticchiato allora (e continuo tutt’oggi) non so quante volte il refrain del pezzo, trampolino di lancio per il mio successivo interesse per le canzoni tradizionali irlandesi.

Di lì in poi poco altro: il gruppo scivolò provvisoriamente lontano dai miei interessi finché quella che allora era la mia ragazza comprò un giorno a Bologna il loro disco d’esordio, Do or Die. Inutile dire che procedetti subito alla rituale masterizzazione.[4]

Il disco d’esordio dei Dropkick Murphys si inquadra bene fin dalla copertina: sorta di rivisitazione aggiornata, divertente e sottoproletaria de «Il Quarto Stato» di Pellizza da Volpedo. Questi ragazzi di Boston, vicini alla sottocultura skinhead, hanno in realtà sempre rifiutato di darsi una politicizzazione chiara e pertanto hanno sempre evitato di appoggiare i gruppi di skins organizzati e a chiaro colore politico (tanto di sinistra quanto di destra). Ciononostante essi hanno da sempre simpatizzato e appoggiato le cause dei lavoratori e le lotte sindacali, e hanno partecipato al secondo volume della compilation Rock Against Bush del 2004. Dunque sì, di parte, ma senza partito, degli orgogliosi indipendenti. Le radici irlandesi si sentono anche qui.

Indipendente è stato anche il loro approccio alla musica punk/hardcore di quella seconda ondata che, durante gli anni ’90, ha favorito un vero e proprio revival aggiornato e tendenzialmente melodico del vecchio sound di fine anni ’70.[5] I Dropkick Murphys si inseriscono fecondamente in questo nuovo solco aggiungendo un po’ di simpatica grettezza stradaiola del vecchio Oi!, con la sua dimensione collettiva e i suoi cori sing along, e l’allegria della musica folk celtica che contiene aspetti in tutto similari.
Quest’attitudine a personalizzare il sound di un genere tipicamente abbastanza fossilizzato come il punk non poteva non colpirmi. Il mix si è migliorato negli anni e ha contribuito a renderli una delle band più popolari di questa sorta di rinascita del punk, ma in Do or Die la strada era ancora tutta da percorrere: l’album risente di quella schietta ignoranza che caratterizza tutti gli esordi, ma al tempo stesso ciò aggiunge qualità al prodotto in quanto lo rende qualcosa di puro, originario, diretto, senza troppi fronzoli.

Il pezzo d’apertura, Cadence to Arms, mi portò via il cuore immediatamente poiché tutto mi sarei aspettato, ma non certo una rivisitazione in chiave punk/hardcore del tema dell’inno nazionale scozzese! Ero già conquistato. Nel prosieguo del disco la componente folk emergerà invero con forza solo in poche altre occasioni, vale a dire nella commovente ballata dal sapore irish di Far Away Coast, a tratti nel pazzo Barroom Hero, nella scatenata cover della tradizionale irlandese Finnegan’s Wake. Ma è già un biglietto da visita non indifferente: i Dropkick Murphys mettono qualcosa di loro e di dannatamente autentico nel proprio modo di interpretare il punk, qualcosa che sentono dentro, qualcosa che hanno vissuto sulla propria pelle. Potremmo definirli, in una parola, veraci.
Invece di contentarsi di fare ciò che tutti quanti già facevano,[6] il quartetto di Boston mette in gioco radici ed esperienze. Le storie dei ragazzi e dei lavoratori che vengono narrate non sono le storie di una categoria astratta e asettica come quella, sbandierata da diversi redskin di allora (e di oggi), del «proletariato», ma sono storie sincere e vissute, fatte di speranze, dubbi, rabbie, amicizie e fratellanze. Puzzano di birra e di whisky, sono sporche come una divisa da lavoro sudata e imbrattata, hanno il gusto salino delle lacrime e del sangue, hanno il calore del gruppo e dei sentimenti più autentici.

L’allegria delle riunioni al pub e delle feste tradizionali sono le due situazioni, i due tracciati ideali che si congiungono in una nuova e particolare alchimia sottoproletaria. Passione vera e autentica, non cliché da quattro soldi rivenduti a buon mercato dal primo gruppetto di turno. I brani da riportare a titolo d’esempio sarebbero tanti, per citarne alcuni a mio avviso più riusciti segnalerò Skinhead on the MBTA, Caught in a Jar, Never Alone e Boys on the Docks. Diventa automatico, per chi apprezza un punk più moderno, lasciarsi coinvolgere e catturare dall’atmosfera che i Dropkick Murphys sanno creare. Che sia la gioia, la tristezza, la rabbia, qualunque sia il sentimento da comunicare esso resta vivido attraverso le note dei nostri.

Se oggi il matrimonio del punk/hardcore con il folk celtico è oramai uno standard nel sound dei nostri, in Do or Die tutto doveva nascere ancora. Questo disco ha la bellezza di una pietra dura appena estratta, non lavorata, allo stato grezzo. Io da allora non riesco a smettere di appassionarmi ogni volta che sento suonare un singolo pezzo dei celtic punx di Boston: la genuinità dei testi, la velocità della sessione ritmica, il sound orecchiabile, mi fanno venir voglia di pogare, di ballare, di muoversi tutti insieme abbracciati tra amici, tasso alcolico alticcio (o al limite dell’ebbrezza totale), bicchieri al cielo.
La musica dei Dropkick Murphys è maledettamente evocativa e coinvolgente, ma soprattutto è e vuole essere partecipazione e dimensione collettiva, come nella più pura delle tradizioni punk. Quindi scusatemi, vado a versarmi due dita di scotch e corro a cantare con loro. Voi non venite?

doc. NEMO
@twitTagli           


[1] Della formazione originale sono rimasti oggi i soli Ken Casey (basso e cori) e Matt Kelly (batteria).

[2] Trattasi, per chi ha memoria, della Superecords: storico piccolo angolo di musica alternativa nel sottopassaggio della stazione di Santa Maria Novella. Adesso al suo posto c’è uno sportello di non ricordo quale banca. Maledette logiche di mercato.

[3] Col termine Oi! si definisce un genere musicale nato dalle ceneri della prima ondata del punk rock come reazione al suo massificarsi in termini modaioli. Inizialmente detto street punk, l’Oi! riprende buona parte degli stilemi del punk rock originario aggiungendovi una spiccata propensione per i cori collettivi. Il genere orbitò soprattutto intorno alla cultura skinhead, in ambienti poveri (proletari o sottoproletari) che reagivano al farsi trend del punk adottando un abbigliamento identitario più semplice (teste rasate, anfibi, bretelle, camicie…). Per un sintetico approfondimento rimando a Mauro Zola, Artisti Vari, Strenght Thru Oi!, in 100 dischi ideali per capire il punk, a cura di Stefano Gilardino, Editori Riuniti, Roma, 2005, pp. 171-172.

[4] I quattrini, oggi come allora, non è che fossero esattamente una fiumana. Persino un patito del CD originale come me doveva piegarsi alla dura necessità della masterizzazione di quando in quando.

[5] Non basterebbe un articolo per descrivere questa wave. Contentiamoci, per necessità di sintesi, di descriverla come un ritorno di fiamma del sound punk rock e hardcore punk della prima ora rivisto e corretto secondo canoni moderni. Diverse sono state le interpretazioni, nel complesso si può dire vi sia stata una generale e spiccata tendenza al melodico e all’orecchiabile in gruppi come i Bad Religion, i Fugazi, i New Bomb Turks, i Green Day, gli Offspring, i NOFX, i Rancid, i Mighty Mighty Bosstones, etc.
[6] Che, intendiamoci, dovrebbe essere l’esatto contrario del punk. Ma come abbiamo visto (vedi nota 3) tant’è: tutti i movimenti di innovazione, per quanto avanguardisti, presto o tardi scadono in un coacervo di imitatori. Fu così per la wave del ’77 ed è stato così anche per la wave degli anni ’90. Salvo rare eccezioni notevoli, è molto semplice imbattersi in gruppi che non fanno che cavalcare l’onda. I Dropkick Murphys, con la loro musica e la loro carriera, hanno mostrato di essere parte integrante delle eccezioni.

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