Dopo la B di Beatles, non ci muoviamo più di tanto dalla capitale britannica. Cambiamo semplicemente contesto cronologico, corrente musicale, quartiere, contenuti e appeal della band (alla faccia del “semplicemente”…).
Se le prime tre lettere sono coincidono con classici indiscussi della storia del rock, già dalle prossime schede potreste avere delle sorprese. D’altronde ve l’avevo detto che era un percorso eminentemente soggettivo, no? Ma andiamo all’attuale.
C come… Clash
Vi consiglio: The Clash, London Calling
Tracklist: London Calling / Brand New Cadillac / Jimmy Jazz / Hateful / Rudie Can’t Fail / Spanish Bombs / The Right Profile / Lost in the Supermarket / Clampdown / The Guns of Brixton / Wrong’em Boyo / Death or Glory / Koka Kola / The Card Cheat / Lover’s Rock / Four Horsemen / I’m Not Down / Revolution Rock / Train in Vain
Etichetta: CBS/Epic. Anno: 1979 (digitally remastered, 2000)
Penso che in molti non saranno affatto sorpresi dalla C. Non che ci volesse molto in effetti: nutro un amore maniacale per i Clash e per il loro storico successo. I quattro punx londinesi costituiscono un capitolo ineliminabile della mia formazione e del mio gusto musicale (al limite dell’eclettico). Inoltre vincono con assoluta facilità data l’egemonia di cui godono nella mia personale discografia alla lettera C.
Dunque, biograficamente parlando, il mio incontro con la musica punk aveva avuto le sue avvisaglie già prima di quello col metal in senso stretto. La colpa/merito risiede in un nastro (eh sì, un’altra volta musicassette, son vecchio) di Giulio, il ragazzo che mi dava ripetizioni di latino e greco. Fu così che ebbi il primo assaggio dei vari Ramones, Dictators, Dead Boys, MC5, Johnny Thunders, Misfits e via discorrendo. In quel periodo MTV trasmetteva peraltro una sorta di storia/documentario sui Sex Pistols di cui mi affrettai a procurami una raccolta. Insomma, i prodromi c’erano tutti, ma il solco del punk era ancora poco profondo. Fu scavato dalla relazione con la mia prima ragazza, Lucia, una punk rocker sfegatata che iniziò a farmi ascoltare un monte di CD. Correva l’anno 2003 e in parallelo col tracciato metal veniva scavato quello del punk, due generi che hanno giocato un ruolo determinante nella mia vita. Due generi di cui ho sempre sostenuto l’intima e necessaria interconnessione[1].
Ovviamente tra i primi ascolti e tra i primi dischi che ho masterizzato dalla mia ragazza ci fu London Calling. E, incredibile a dirsi, inizialmente non mi conquistò più di tanto: il punk doveva essere grezzo, ignorante, semplice, immediato, cattivo, quattro accordi in croce e ritmi serrati. Trovai difficile digerire un disco complesso e multisfaccettato come il terzo lavoro dei Clash. Con tutto che, episodicamente, lo riprendevo in mano e me lo riascoltavo trovandolo in qualche modo intrigante, spontaneo e ficcante. Probabilmente è stato uno dei primi momenti in cui la mia sensibilità musicale si è aperta al di là dei tracciati dell’intransigenza di quegli anni. Ricco di influenze ska, reggae, blues, rock’n’roll e così via, il punk rock dei Clash mi ha portato progressivamente a innamorarmi del groove, dell’attenzione al gioco della sessione ritmica, della poliedricità e della personalità di un gruppo all’interno di uno stile.
Sì, perché per me i Clash sono e restano un gruppo punk anche da London Calling in poi. Questa cosa mi ha portato spesso ad affrontare accesi dibattiti coi miei amici che ritenevano che i Clash fossero punk solo agli esordi e che poi fossero diventati niente più che un buon gruppo rock spendibile. Mi ricollego alle parole di Stefano Gilardino: «Il punk ha terminato la sua corsa restando comunque nel sound della band ma è tutto ciò che viene aggiunto che fa impressione. Londra non brucia più stavolta, ma chiama a voce alta, e i fantasmi di Elvis, dei Beatles e degli Stones tornano a farsi minacciosi e presenti, ripescati dal gruppo e convertiti in una formula attuale»[2]. Proprio qui sta il punto secondo me: il sound di London Calling è arricchito, recupera in estrema libertà e autonomia nuovi patrimoni musicali; questi però vengono convertiti, attualizzati, non adottati come forma base. In sintesi, sono innesti ingegnosamente riusciti nel tronco della musica punk.
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Aggiungo anche una mia interpretazione che ci porta a monte del problema. La musica punk nasce come rivoluzione ed estremizzazione del rock, è una guerra contro il suo ingresso nell’Olimpo delle vendite e delle music charts, è un tentativo di riportarlo a una forma genuina, essenziale e originaria. Velleitario quanto vi pare, dato che anche i Pistols hanno scalato le classifiche, ma questo era lo spirito: «do it yourself», fallo da solo e da te, come più ti piace. Sii creativo, non contentarti di fare quello che fanno gli altri, non fare numero. Provoca, reagisci, rompi le regole e le consuetudini, una sorta di anarchismo artistico se volete.
Certo si è trattato più che altro di una temperie che è poi divenuta slogan, che si è cristallizzata e che è stata a sua volta copiata (alla faccia della creatività), ma in ogni modo così è cominciato tutto. La leggenda non troppo popolare per la quale chiunque poteva mettere su un gruppo punk [3] è ancor più esemplificativa, stava a significare la rottura della distinzione artista/pubblico, portava quest’ultimo a una partecipazione attiva durante i concerti, a una dimensione del concerto come festa collettiva priva di ruoli e separazioni nette: chiunque può salire sul palco, cantare, suonare, far casino insieme alla band; i musicisti non sono idoli, geni della musica o celebrità intoccabili, sono persone semplici, quotidiane, incazzate e annoiate dalle cose quanto chi ascolta – e basta vedere un video dei concerti di allora per capire quanto dovesse essere vero tutto ciò. Almeno nella prima ora.
Ora, i Clash arrivano a London Calling un flop dietro l’altro: il secondo album, Give’em Enough Rope, non aveva riscosso successo, il tour negli U.S.A. era andato maluccio e a causa dei litigi col manager erano praticamente a piedi e senza contratto. La storia divertente dello studio messo su in una vecchia officina d’auto in disuso, l’alternarsi tra lunghe jam sessions e partitelle di calcetto con gli amici nel parco di fronte, l’elettricità e la vivacità delle registrazioni del materiale… [4] tutto questo restituisce un’atmosfera abbastanza simile a ciò che il punk avrebbe dovuto offrire.
Non solo: l’eclettismo dei nostri non risulta in un album complesso e iper-costruito ma anzi risulta accessibile, immediato e spontaneo. Lasciamo da parte l’inossidabile e spesso abusata title-track, dove comunque troveremo un ritratto sagace e dissacrante di una Londra quasi post-nucleare, e troveremo un album che sa essere orecchiabile e spendibile senza perdere capacità di denuncia politica e sociale: la critica alla società dei consumi e dell’alienazione che ne consegue (Koka Kola e Lost in the Supermarket), l’amara e commovente ballad su amore e antifascismo durante la Guerra Civile spagnola di Spanish Bombs, il groove irresistibile di The Guns of Brixton che adotta la musica reggae per interpretare le rivolte dei neri del quartiere di Brixton, la storia di un fuorilegge in fuga dalla polizia della sommessa e bluesy Jimmy Jazz, e ancora il reggae schietto e riottoso di Revolution Rock.
Adottando uno stile più variegato la musica dei Clash si apre, il messaggio che porta è ancor più accessibile ed efficace, diventa quasi una “internazionale del punk” che strizza l’occhio soprattutto al terzomondismo (il seguente LP Sandinista potrebbe essere una conferma di questa lettura) rifiutando di relegarsi al mondo e alla società cosiddette occidentali. Tutto questo non solo è punk ma è, a mio personalissimo parere, la forma più matura che tale genere abbia mai assunto pur restando in tutto e per tutto fedele a sé stesso.
Il rock aveva infatti smesso da tempo di essere denuncia, il rock’n’roll (che i punk rockers volevano riportare a una dimensione provocatoria e primordiale) era sempre più commercializzato e relativamente svuotato di spirito battagliero: recuperarne la tradizione innestandovi nuove influenze, caricarne i contenuti di messaggi significativi, mantenere un profilo basso e accessibile in modo che tutti potessero cantare e ballare su questo stile, queste sono state le oramai storiche conquiste dei Clash di London Calling.
Il reggae, lo ska, il blues, etc. di questo album restano, dall’inizio alla fine, semplici e dall’appeal immediato, restano insomma (pur nelle loro specificità) punk. Magari non punk nel senso stretto e intransigente che questa terminologia ha voluto mantenere a livello musicale, ma in un senso appunto di permanenza stilistica, di modalità e di contenuti che restano quelli della prima ora.
Infatti Stefano Gilardino ha felicemente osservato come i Clash, nello storico trio punk britannico degli esordi (completato dai Sex Pistols e dai Damned), abbiano ricoperto «lo scomodo ruolo di coscienza politica del movimento, di portavoce di una generazione di adolescenti bianchi, annoiati e disoccupati» [5]. Con London Calling ne daranno l’espressione migliore musicalmente e contenutisticamente parlando. Capolavoro.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=EfK-WX2pa8c]
doc. NEMO
[1] Da un punto di vista storico – musicale affermavo l’ovvio, ma in quel periodo i primi forum di punx e metallari (o supposti tali) regnavano di oziose quanto odiose battaglie tra le due scene. In effetti c’erano le relative differenze, e a più di trent’anni dalla nascita delle due correnti esse erano evidenti. Persino con la mia ragazza di allora c’era una sorta di diverbio in merito. Fui sempre convinto però che le due scene dovessero essere intimamente legate, che le due attitudini e i due stili non fossero inconciliabili…uno dei miei slogan era «Metal ‘n’ Punk United».
[2] Stefano Gilardino, The Clash, London Calling, in 100 dischi ideali per capire il punk, a cura di Stefano Gilardino, Editori Riuniti, Roma, 2005, p. 127.
[3] Il caso più noto è quello di Sid Vicious, celebre bassista dei Sex Pistols. Divertente e sagace è la testimonianza raccontata da Lemmy Kilmister, vedi Lemmy Kilmister e Janiss Garza, La sottile linea bianca. Autobiografia, Baldini Castaldi Dalai, Milano, 2004, p. 123. Nelle pagine seguenti c’è anche la versione di Lemmy sulla scena punk che, devo dire, sottoscriverei solo parzialmente. Ma qui non c’interessa…
[4] Pare che il pezzo Brand New Cadillac sia stato registrato in un unico take in presa diretta mentre il gruppo stava molto semplicemente provando il pezzo.
[5] Stefano Gilardino, The Clash, The Clash, in 100 dischi ideali cit, p. 31.