Questo percorso personale, biografico e musicale attraverso la mia collezione di dischi è nato all’inizio di quest’anno come esercizio di stile. I primi feedback degli amici sono stati continui, positivi e incoraggianti. Per merito/demerito (scegliete la versione che preferite) di un amico sono arrivati fin qui. Comincia così una nuova avventura “editoriale”, sempre pronto a ricevere i nuovi spunti, osservazioni e commenti da parte di chi legge. Trattasi (è sempre bene ribadirlo) di un percorso assolutamente soggettivo, dunque le scelte e le idee che esprimo non hanno alcuna pretesa di validità o centralità di tipo storico–musicale. Per chi vorrà seguirmi, auguro buon viaggio e buona musica. Iniziamo.
A come… AC/DC
VI CONSIGLIO: AC/DC, Live
Tracklist: Thunderstruck / Shoot to Thrill / Back in Black / Who Made Who / Heatseeker / The Jack / Moneytalks / Hells Bells / Dirty Deeds Done Dirt Cheap / Whole Lotta Rosie / You Shook Me All Night Long / Highway to Hell / T.N.T. / For Those About to Rock (We Salute You)
Etichetta: Leidseplein/Epic; Anno: 1992 (digitally remastered, 2003)
Penso che alla lettera A non vi sia proprio storia. Almeno non nella mia personale collezione di dischi. Penso anche sia inutile star qui a spiegare chi sono gli AC/DC o cosa rappresentino nella storia del rock. Inutile e ozioso. Pertanto partiremo da un lungo excursus biografico altrettanto inutile e ozioso.
Dunque, avrò avuto sì e no 14-15 anni quando iniziai ad approcciarmi alla musica non solo come fruitore occasionale ma come appassionato con una (anche se vaga) cognizione di causa. Ricordo con chiarezza che nel mio retroterra culturale un po’ di rock c’era già, merito soprattutto del babbo e delle sue musicassette (eh già, vengo dalla generazione delle musicassette) colme di classici del rock. Classici del rock che, ahimè, sorpassavano di rado gli anni ’70 e che, quando lo facevano, tendevano ad abbandonare i territori più integralmente rock per volare verso altri lidi [1]. Motivo per qui questi AC/DC che vedevo campeggiare sulle magliette del mercato di San Lorenzo, negli scaffali dei negozi di dischi, e nei poster che ancora andavano di moda, mi suonavano nuovi. Come sono arrivato a capire chi fossero? Beh, fu merito soprattutto di un libro, un libro che accompagnò la mia estate 2002 (se non vado errato) e da cui ho tratto una gran mole di input e informazioni: Heavy Metal. I Classici, a cura di Luca Signorelli ed edito nella collana «Atlanti Rock» della Giunti [2]. Bene, immaginatevi alla lettera A (per l’appunto) quale fu il primo nome su cui sbatté la mia attenzione. Proprio loro, gli AC/DC.
Band tutt’altro che metal a dirla tutta ma che, come rilevava l’autore della loro voce, aveva pesantemente influito non solo su certo rock ma sul nascente heavy metal stesso. Ora, in quel periodo purtroppo non c’erano Wikipedia, YouTube, Myspace, Facebook e tutta una serie di strumenti per ascoltare e scaricare musica a piacimento. O meglio, magari ce n’erano altri, ma non godevano ancora di un accesso di massa paragonabile a quello odierno. L’unico modo per accedere alla musica era cercarsela in un negozio, da un amico, da un parente, e ascoltarsela [3]. Girando per i negozi di dischi (ricordo con particolare piacere il vecchio SuperRecords nel sottopassaggio della stazione di Santa Maria Novella) avevo già magari sentito qualcosa, intuito qualcuno degli immortali passaggi degli AC/DC. Bastava domandare al commesso: «Chi sono questi?». Ottenendo una risposta tra lo sbalordito e il comprensivo: «Chi sono?!? Ma sono gli AC/DC, una delle più grandi rock band di tutti i tempi! Questa che stai ascoltando è Back in Black».
Già, ricordavo quel nome. Nel piccolo libro della Giunti avevano dedicato un’attenzione particolare a quel disco. Tanto che quell’anno mi feci doppiare in musicassetta da un mio amico del liceo, di nome David, l’intero album. Corsi a casa e passai il pomeriggio a dimenare il capo dietro a quel sound maniacalmente e dannatamente travolgente, riscorrendo le parole della voce AC/DC nella guida all’heavy metal e iniziando a intuire quanto il rock fosse imprescindibile per arrivare al mio genere preferito. L’estate successiva, lavorando al Mercato Centrale di San Lorenzo, saltò fuori che anche i miei principali, i fratelli Boni, erano fan della mitica band australiana (anche se 3/5 dei componenti son d’origine scozzese, ma poco importa).
Fu lì che mi venne prestata la musicassetta di un loro famoso live col primo cantante, Bon Scott, il celebre live If You Want Blood…You’ve Got It! La mia conoscenza degli AC/DC si approfondiva e la passione con lei, non potevo fare a meno di perdere la testa dietro a quei riff torcibudella tracciati dall’abile mano dello scolaretto Angus Young. Ma il formato della musicassetta non era più sufficiente, già il CD prendeva il sopravvento e i ragazzi si scambiavano musica fondendo letteralmente i masterizzatori del povero computer di turno [4]. E io, perché non mi facevo masterizzare anch’io l’intera discografia degli AC/DC? Perché già allora avevo una brutta malattia che ancora oggi mi pervade, ossia l’amore per il disco originale, con copertina, booklet, disco con la stampa e tutto il resto.
Il prodotto CD mi è sempre piaciuto e ancora oggi son restio a masterizzare un disco, preferisco possedere una copia originale. Così andavo dagli amici, ascoltavo i diversi dischi, me li facevo anche prestare, ma masterizzare mai. Finché finalmente, avendo soldi a sufficienza (capitava di rado e venivano spesi in cd) acquistai Live, registrato appunto dal vivo nel 1992 e grande testimonianza del secondo periodo degli AC/DC, quello con Brian Johnson alla voce.
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=IGOzKPB4KfE]
Registrato durante il tour mondiale del 1990-1991, Live è una grande testimonianza del primo decennio trascorso con Mr. Johnson alla voce degli AC/DC. Dopo la tragica scomparsa del primo cantante Bon Scott, ci volle una certa dose di coraggio e di buona volontà per proseguire. Se si pensa che il risultato fu quel capolavoro di Back in Black, non resta che farsi da parte. Scandito da un pubblico che intona un inconfondibile coro da stadio invocando Angus Young, irrompe frenetica a segnare l’avvio delle danze l’inconfondibile Thunderstruck, seguita a ruota da una doppietta da dieci e lode composta da Shoot to Thrill e Back in Black. Band in grande stato di forma, sound cristallino e restituito in tutta la sua immediatezza e purezza. Questo è il rock, quello che alimenta le energie e scatena il lato primordiale di te.
Gli AC/DC ne sono senza dubbio tra i più grandi interpreti di sempre anche per la loro fedeltà all’essenzialità della formula: estremamente debitori della scuola del blues e del primo rock’n’roll, hanno da sempre composto canzoni semplicissime, dallo sviluppo intuibile fin dalle prime note, praticamente basate sempre sui soliti 3-4 accordi. Un aneddoto divertente su Angus Young aiuterà a capire: intervistato da un giornalista, che gli chiese cosa avesse da rispondere a chi criticava il suo gruppo dicendo che avesse scritto 13 album tutti uguali, Young rispose che era sbagliato perché gli AC/DC avevano in realtà scritto 14 album tutti uguali [5]. Eppure questa formula ripetitiva e poco disponibile a mutamenti ha fatto ballare e scatenare milioni di fan in tutto il mondo.
E c’è da credere che lo farà ancora per diverso tempo. Proprio come il rock’n’roll degli anni ’50, che si basa su riff e strutture estremamente simili tra loro. Per tacere poi del blues. Questo per dire che a volte, per arrivare al punto, la via più breve è quella diritta. Semplice e genuina, senza fronzoli e abbellimenti inutili. Dunque, sì, ignoranti, grezzi, rudi, ma schietti, sinceri, fedeli alla propria idea di musica rock. Così, passando per un’adrenalinica Heatseeker, un prolungato passaggio blues con The Jack, un cupa Hells Bells e una avvincente You Shook Me All Night Long (snocciolando altri classici per la via), arriviamo alla magica tripletta conclusiva. L’oramai celebre e indiscusso classico del rock Highway to Hell, la letale T.N.T. e il perfetto finale da live (con tanto di cannoni) For Those About to Rock (We Salute You). Un itinerario perfetto per chi vuole conoscere gli AC/DC nella loro forma più diretta possibile, attraversando e toccando tutti i brani più significativi della loro carriera. Non perché quanto è venuto dopo gli anni ’90 non abbia valore, ma perché è indubbio che il loro momento più florido e rappresentativo sia stato proprio quello che questo album live ha simbolicamente chiuso.
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doc. NEMO
[1] Verso i 16-17 anni, non ricordo bene, riparlai col babbo di rock, di anni ’60 e ’70. Essendo il babbo nato nel 1951, gli anni Settanta avrebbero dovuto vederlo nel pieno della forma (spero capiate cosa intendo) per apprezzare tutta quella stratosferica stagione rock. E in effetti gli apprezzamenti per i vari Led Zeppelin, Deep Purple & co. non mancavano, tuttavia il babbo mi disse una frase che suonava più o meno così: «I Black Sabbath me li ricordo, sì, li ho visti uscire fuori. Ma quel sound era già troppo per me». Intuii immediatamente che certo tipo di rock anni ’70, magari più incisivo e pesante, non fosse nelle corde di mio babbo già in gioventù. Questo spiega perché vi fossero delle “lacune” nel mio primo apprendistato nel mondo del rock di quegli anni d’oro.
[2] Da notare che feci l’acquisto per inquadrare meglio quella che era stata una mia scoperta recente, l’heavy metal appunto, cui mi ero appassionato grazie a quello che ad oggi è ancora il mio gruppo preferito, gli Iron Maiden. Ma questa è un’altra storia…
[3] Piccolo momento da nostalgico brontolone: ah, belli quei tempi! Sì perché la musica non era un tesoro personale e privato. Scoprire musica nuova voleva dire parlare con qualcuno, domandare a qualcuno, scambiare opinioni con qualcuno. Che fosse al negozio di dischi o nei corridoi del liceo durante l’intervallo cambiava poco, l’importante era che per scoprire roba nuova (non necessariamente musicale) non c’era ancora l’odioso imprinting di digitarne il nome sulla barra di un motore di ricerca. Chi sapeva, chi aveva, chi conosceva, parlava, scambiava, oppure doppiava una musicassetta (la masterizzazione di CD faceva appena i primi passi). Vi era insomma una dimensione più concreta, diretta, e immediata. C’era l’ansia della ricerca e la soddisfazione del risultato. C’era un calore e un peso specifico diverso rispetto al condividere un link su un social network. Ok, fine momento nostalgico. Domando scusa.
[4] Perché, c’è da dire, la rivoluzione era nella fase iniziale, dunque c’erano quei fortunati col computer nuovo a casa che avevano appreso i segreti della masterizzazione e quelli che o il computer non lo avevano di ultima generazione, o proprio non lo avevano. Per fortuna i CD “vergini” (vuoti) si reperivano facilmente e a basso costo.
[5] Questa intervista risale alla pubblicazione di Stiff Upper Lip (2000), dunque ora bisognerebbe rimodellarla dicendo che sono 15 gli album tutti uguali. Infatti l’ultimo album in studio degli AC/DC, Black Ice, ha riproposto per l’ennesima volta la stessa formula. E ci sta bene così.