“Fare cisti”. O, semplicemente, “cisti”.
L’avrete sentita, e magari utilizzata, anche voi: questa espressione è (ancora) presente nel gergo giovanile di varie parti d’Italia. Tra le altre, in Emilia Romagna e nelle aree metropolitane di Torino e di Milano.
Con significato leggermente differente: se in area emiliano-romagnola è utilizzata nel senso di “fare (qualcosa) di nascosto”, tra i giovani dei due maggiori centri urbani del nord-ovest è utilizzata per invitare a “fare attenzione”.
Nata in ambito hippy-alternativoide (parliamo ancora di Torino e Milano, tralasciando la realtà emiliana – che conosciamo meno), l’espressione “fare cisti” ha poi conquistato altri gruppi e altre culture giovanili, riscuotendo particolare successo nei contesti truzzo-discotecari.
L’etimologia dell’espressione è oscura.
È da escludere senz’altro un fantasioso legame, suggerito da qualcuno, con il personaggio boccaccesco di Cisti fornaio – protagonista della seconda novella della sesta giornata del Decameron ed eroe della schiettezza e dell’onestà, non certo della circospezione sospettosa.
Altri fanno risalire questo modo di dire all’ambito medico, con riferimento alla natura sottocutanea (e quindi nascosta) della cisti.
Probabilmente, l’origine di “fare cisti” è condivisa con quella di un’altra espressione gergale giovanilistica, ossia “incistarsi”. Questo verbo è a sua volta, nella sua accezione non gergale, di ambito medico, e – secondo il De Mauro – significa
essere avvolto da una formazione di tipo cistico (di corpo estraneo o ascesso).
Usato in senso gergale, in varie parti d’Italia significa “infatuarsi di qualcuno” o “appassionarsi a qualcosa”.
Questo termine è attestato anche in letteratura. Dino Buzzati scrive infatti in “Un amore”:
Era come un piccolo paese incistato fra lo schieramento delle case.
Andrea Donna