Perché questo Paese non può salvarsi

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Sto tornando a casa dopo aver passato il pomeriggio a casa di mia nonna, che è stata appena derubata da due truffatori. Non le hanno torto un capello, ma quando si è resa conto che da casa sua erano spariti i pochi valori di cui disponeva, i suoi 88 anni le sono caduti addosso uno sull’altro, senza pietà.
I carabinieri l’hanno tenuta un’ora a deporre, per poi scrivere un verbale di denuncia con tre errori di ortografia in una facciata di foglio protocollo.
L’ho lasciata in salotto, triste e mogia, un po’ più vecchia e un po’ più indifesa di quanto lei per prima si credeva questa mattina.

Mentre attraverso il corso, mi rimbombano in testa (lo fanno da giorni, in realtà) le parole di una vecchia amica che ho rivisto dopo mesi.
È scappata (ripeto: scappata) in Australia, per tutta una serie di fattacci suoi personali tra cui – comunque – spicca il fatto che tutti e dico tutti i suoi vecchi compagni di corso sono ancora oggi come era lei quattordici mesi fa: inutili, loro malgrado.
A casa, senza lavoro, senza prospettive, con stage gratuiti utilissimi per “abbellire il proprio curriculum”, dovendo ancora ringraziare questo o quel colosso che dà loro il privilegio di progettare gratis per loro.

“In Italia vedo solo ed esclusivamente negatività. Solo il problema, e mai la soluzione, mai il lato positivo.
Non reggevo, non ce la facevo. Volevo ricominciare da zero, senza la permalosaggine della stragrande maggioranza dei rapporti umani che mi portavo dietro, in un posto dove la gente fosse… contenta.
Non sempre tesa a fregarti, a mettertela in quel posto, a fare carte false.
Ingenui e faciloni, sicuro. Ma buoni”.

Nove su dieci, un discorso del genere si infrange sull’armatura di cinismo zincato che ostento con malcelata fierezza. Questa volta no, perché l’ho vista contenta. L’ho vista contenta sinceramente, non come altri che l’avevano preceduta e la cui esibizione facebookiana della propria scelta mi dava quel sapore a metà tra il marzapane e il cartone. 
Era contenta di essersi lasciata a 16 mila chilometri quello che ci ostiniamo a definire il Bel Paese, con la lingua più bella del mondo, la cucina più buona del mondo e il campionato più bello del mondo.
Inutile dire che sto rimuginando sul discorso della mia amica ben oltre il tempo necessario, e probabilmente anche quello ragionevole. Eppure – nessuno sfugge all’asfissiante rito dei bilanci di inizio/fine anno – le parole di Silvia sono come un ago ed un filo tenacissimi: cuciono insieme le cose più disparate.

Cuciono insieme l’umiliazione subita dalla mia amata nonna da parte di due miei coetanei dall’atteggiamento suadente; cuciono le decine di commenti beceri e ignoranti che riceviamo su Tagli, in cui si accusano i nostri autori (dei ragazzi!) di essere dei corrotti e dei prezzolati, il tutto senza la minima prova (che del resto non esiste, essendo tutti – chi più chi meno – degli spiantati) e per il gusto dell’illazione e del veleno.
Cuciono quelli che devono per forza fare una battuta quando una persona muore o semplicemente sta male (e questa loro battuta la impongono, e non si accorgono di essere violenti); cuciono tutte le volte che sono stato sprezzante o aggressivo e non era il caso; cuciono un viceministro dimissionario che gongola in radio “ho messo in difficoltà gli ‘altri’ del mio partito“; e cuciono il segretario che lo deride volutamente in conferenza stampa.

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Legano assieme i quattro miei amici su dieci che non lavorano e i troppi, troppi imprenditori che ho conosciuto che “da adesso ti devi aprire partita IVA, perché i contributi non te li pago più“; oppure che “I soldi te li do tra due mesi“, frase pronunciata nella medesima settimana in cui portava i libri contabili in tribunale per far fallire una S.R.L. a capitale depositato ed immediatamente ritirato (manco le scrivanie, avevano di proprietà: le affittavano); oppure ancora che rispondevano solo quando chiamati da un “numero privato”.
E poi gli auguri di morte (morte!) rivolti a una ragazza perché ha detto una semplice verità e quelli rivolti a un leader politico fallibile, ma onesto (qui un commento inappuntabile di Bartezzaghi, su Repubblica).
Animo affine a chi si dichiara contento perché un ragazzo si è rotto per la terza volta il ginocchio, visto che gioca nella squadra rivale.

Le parole di Silvia mi riportano alla mente la marea di presuntuosi, ironici e sguaiati che affollano qualunque dibattito, pubblico o ristretto. E la tracotanza dei nipotini di Mediaset (pane, Amici, palestra, depilazione e fica) e la lancinante lettera comparsa su Facebook, che abbiamo rilanciato anche dalla nostra pagina ufficiale.
Cuciono la sfacciataggine dei maschi che all’estero mettono le mani addosso alle straniere perché “tanto non capiscono le loro proteste” e la pigra ostinazione a non parlare nemmeno una lingua estera. 
Cuciono il fatto che gli italiani, siano a casa o in treno, in piazza o al museo, urlano sempre; e la loro irreprimibile voglia di diventare popolari ma travestiti da vittime reiette.

Io non so quanto sia equo questo sfogo: tutte le volte che si draga la propria frustrazione viene su una insostenibile quantità di mota. Ma non mi aiuta ricordare il discorso della mia amica, quando con noncuranza – davvero, credetemi, non era in posa – concludeva il suo bilancio di un anno e qualcosa di Australia con “le uniche fregature le ho prese da alcuni italiani. E da dei libanesi“.
Uno cerca “di essere il cambiamento che vuole vedere nel mondo” (e bla bla bla), ma ogni giorno incassa una sconfitta, ed il resto dell’orchestra stona gioiosa assieme a lui. 
Diciamoci la verità, questo Paese non può salvarsi. Perché è abitato da gente come noi.

Umberto Mangiardi
@UMangiardi

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