Tutti esaltano La grande bellezza [o La Grande Bellezza? Ho un cattivo rapporto con le maiuscole di questo film] perché è un bel film. O almeno, è un film che piace alla Gente Che Piace e quindi via alle giaculatorie estasiate.
Poi la grande bellezza ha vinto l’Oscar, e con l’Autorità noi abbiamo un rapporto tutto nostro, visto che è davvero corrotta, infame e covo di ebrei (cit.) tranne in quelle poche volte in cui riconosce i nostri giusti e sacrosanti meriti.
Tutti infine e comunque parlano della Grande Bellezza [ci rinuncio], tra chi osanna e chi si rode e/o fa il bastian contrario – tanto bene che vada si passa per raffinati ed indipendenti e… non ho certo intenzione ora di iniziare il noiosissimo discorso sul conformismo dell’anticonformismo, peste mi colga.
Fatto sta che assumere una posizione sulla Grande bellezza sottintende assumere una posa: più che altre volte. Siamo noiosi, nel nostro dibattere pubblico.
Il punto è che tutti analizzano, trattano, esultano, denigrano, giudicano, ponderano la GB [ecco.] ma nessuno la subisce. E no, non “subire” in chissà quale chiave morale-estetica in cui la bellezza è pathos che deve essere subìta e via discorrendo, in una di quelle pantomime radical-chic da professoressa di liceo ricca ma che continua a insegnare lo stesso perché la fa sentire viva.
Bisogna subire la GB perché è un film che ci riempie di schiaffi in quanto italiani di questa Italia, e lo fa di fronte al mondo intero. E il mondo intero, non pago, lo premia.
Chi si compiace dell’Oscar e pensa sia stato premiato solo un film credo sia lontano dal nocciolo del problema.
Non ho mai voluto scrivere di cinema: se avessi mai voluto, ne avrei visto di più, ne avrei capito di più, ne avrei studiato di più. Sorrentino ha fatto un film che mi è piaciuto ma non mi è strapiaciuto, di cui perfino un analfabeta degli 8 millimetri come me capisce la maestria e di cui perfino il medesimo analfabeta intravede i difetti: sono moderatamente contento del fatto che abbia vinto un Oscar, ma assicuro che nelle ultime 48 ore la notizia mi ha dato molta molta meno emozione di un sacco di altre cose – classifica guidata saldamente da una succulenta bistecca alla fiorentina alle 14.30 di domenica.
Quindi non ho né la competenza né l’intenzione né la voglia di ficcarmi in una simile malabolgia dantesca in cui c’è gente che urla isterica “è me-ra-vi-glio-so” e altra gente che vomita “è sopravvalutato”.
Ma trovo interessantissima una serie di meccanismi più o meno consequenziali e più o meno evidenti. Innanzitutto, da mo’, si è scatenata una maniera autoassulutoria di vedere, interpretare ed apprezzare il film.
Cioè: io lo guardo, quindi me ne compiaccio, quindi esecro, quindi non sono come quelli lì. E cioè (secondo livello): non sono di quell’universo cafonal-arricchito ritratto da Sorrentino.
Non certo perché non sono ricco/ricca, ma perché – diamine! – non sono cafonal. Una dichiarazione senza prova contraria, del resto, epidittica e priva di qualunque smentita nei secoli dei secoli.
Secondo, ma è un po’ un corollario del punto uno, Sorrentino descrive un’Italia irrespirabile. Dunque esegue un ritratto meraviglioso, poiché tutti sappiamo che questa Italia è effettivamente irrespirabile, ma non siamo mai riusciti a capire il perché; o meglio, rinveniamo sempre il perché negli altri: i politici, i calciatori, gli ultras, gli evasori, i mafiosi, i preti eccetera.
Tutte categorie ben determinate, tutto sommato lontane dalla nostra mediocrità: quasi nessuno è un mafioso, quasi nessuno è un politico, quasi nessuno è un ultras. Nessuno è niente, dunque: eppure, l’aria è irrespirabile pur noi non frequentando mafiosi, politici, ultras.
Nessuno si è mai chiesto come mai? Difficile: ed è difficile perché una domanda del genere costringerebbe a porsi nella prospettiva di considerare il proprio ordinario squallore, la propria immoralità, la propria cialtroneria.
Terzo: arriva quindi l’obiezione, “Ma gli americani lo hanno premiato”. Ma certo! Lo hanno premiato per due motivi, primo perché è fatto bene; secondo perché non solo dà conferma dei loro pregiudizi su quel popolo di mangiaspaghetti chiassosi e promiscui e edonisti, ma perché con maestria utilizza il registro della farsa per far ammirare a uno spettatore civile e colto le bestie da circo sul suolo italico. La colpa, ovviamente, non è di Sorrentino, il quale è riuscito a coniugare peraltro un gran film ed una delle peggiori dichiarazioni di ringraziamento di sempre alla premiazione, ruffiano e icastico come solo un vero italiano.
Sorrentino, in effetti, non è un pubblicitario, ma un regista – anzi da ieri sera un artista, e dunque il suo pane non è nemmeno più vendere roba ma agire su un altro piano, dando di gomito a Kant, Platone e Buonarroti (Sorrentino in realtà si era già messo da tempo in quest’ottica, e dunque attendeva solo una carta bollata per istituzionalizzare questo suo atteggiamento). Ma ora può, e dunque bisognerà pigliare tutto quello che viene da lui come i postulati di Euclide. E anche chi detesta la frase che ha appena letto sa che succederà così.
Infine, la macchietta italiana che tanto è piaciuta all’estero è l’estrema conseguenza del ventennio di edonismo reaganiano fuori tempo massimo del Paese (sì, sì, sto arrivando al berlusconismo, ma non nella chiave che sperate). La scala di valori degli anni ’80, perpetrata con vuota ferocia, ci ha consegnato l’universo moderno di Dagospia. Quello che detestiamo, quello di cui parla Sorrentino: e fin qui ci eravamo arrivati tutti.
Ma quello che il pubblico estero vede non è la caricatura grottesca – o meglio, la vede ma non la subisce, e ci risiamo. Il pubblico estero vede e subisce il fascino di questa vita descritta così, perché in fondo è una bohéme riveduta e corretta. Tanti personaggi irresistibili che bighellonano su un palcoscenico statuario circondati da contrasti estetici ed etici: un bestiario, in due parole. Vorrebbe essere capace, a vivere così.
Noi invece lo conosciamo, e non solo sappiamo che non è finzione ma anzi sappiamo che per una certa romanità (italianità) è quotidianità. Sorrentino ha cristallizzato uno status quo, un massimo, una vita da ricchi – che tutti vorremmo e che nessuno può – ritratta in piano sequenza. Sorrentino ha istituzionalizzato la decadenza della ricchezza, e questo è piaciuto all’estero (non solo l’operazione artistica, badate bene, è piaciuto il concetto!, il contenuto: la differenza è fondamentale). Loro ci pensano così, loro ci vedono così, finora siamo stati così.
Ed il fatto che noi si sia nella stragrande maggioranza dei miserabili lontanissimi da un’esistenza di Ferrari, attici sul Colosseo e champagne non cambia una virgola: è la mentalità comune italiana, quella descritta. Sì, certo, da una parte sproloquiamo di boni mores antiqui e senso civico e se non ora quando e tutte queste fagiolate con cui ingravidarci la bocca; dall’altra lo shake di anni 80 strascicati+dolce vita+sregolatezza moderna è quanto più desidereremmo vederci offerto dall’esistenza: tronfi moralisti/intimamente immorali.
In realtà Jep Gambardella è quello che tutti vorremmo essere, se mai potessimo permettercelo. Anzi, siamo addirittura sicuri che saremmo meglio. Più fichi, più viveur, più sul pezzo, più moderati, più saggi, più tutto e il contrario di tutto.
Il timore è che per continuare ad inchinarci a questa caricatura dei nostri tremendi costumi (e ci inchiniamo non per compiacere i ‘mmmerigani: ci inchiniamo a questi stereotipi perché questi stereotipi sono veri, e sono panni che ci van tanto comodi) noi non si abbia la minima intenzione di cambiarli: finché ci basterà il gusto della nostra decadenza, di speranze ce ne sono pochine.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi