
Quello che segue è il discorso di un antropologo, Scott Atran, sullo jihadismo giovanile. Lo ha tenuto presso il Consiglio di Sicurezza dell’ONU.
Ve lo proponiamo in traduzione. Qui il documento originale.
Vostra Altezza Reale Principe Al Hussein Bin Abdullah II, signor Segretario Generale e distinti rappresentanti, ringrazio il Consiglio di sicurezza e il governo della Giordania per darmi l’opportunità di aiutare.
Sono un antropologo. La comunità di antropologi studia le differenti culture umane con l’obiettivo di capire le somiglianze e le differenze, cercando di utilizzare la conoscenza di ciò che è comune per superare le differenze. La mia ricerca è volta ad aiutare a ridurre la violenza tra popoli, in primo luogo provando a comprendere pensieri e comportamenti totalmente differenti da ciò che posso concepire: come le azioni suicide che uccidono masse di persone senza che esse abbiano recato alcuna offesa ad altri.
La chiave, come Margaret Mead mi insegnò tempo addietro quando lavoravo come suo assistente all’American Museum di storia naturale qui a New York, è entrare in empatia con le persone, senza però arrivare sempre alla simpatia; partecipare alla loro vita nella misura in cui è per me moralmente possibile. E poi documentare.
Ho passato molto tempo a osservare, intervistare e portare avanti studi sistematici tra le persone di sei continenti che sono trascinate all’azione violenta per un gruppo e per la sua causa. Più di recente sono stato con altri colleghi a Kirkuk, in Iraq, tra giovani adulti che hanno ucciso per l’ISIS, e con giovani adulti che volevano unirsi a loro dalle periferie di Parigi e dai barrios di Barcellona.
Con qualche idea derivata dalla ricerca in scienza sociale, cercherò di tratteggiare alcune condizioni che potrebbero aiutare ad allontanare questa gioventù lontano dalle strade che portano all’estremismo violento.
Ma, prima di tutto, chi sono questi giovani adulti? Nessuno dei combattenti dell’ISIS che abbiamo intervistato in Iraq aveva più di un’educazione primaria; alcuni avevano moglie e bambini.
Quando chiedevamo “che cos’è l’Islam” rispondevano “la mia vita”.
Non sapevano nulla del Corano o degli Hadìth, né degli antichi califfi Omar e Othmàn; avevano assimilato l’Islam della propaganda di Al Qaeda e dell’ISIS, imparando che i musulmani come loro erano destinati all’estinzione a meno che non avessero eliminato prima l’impuro.
Nel contesto in cui vivono non è un’idea così stravagante. Un contesto che li ha visti crescere dopo la caduta di Saddam Hussein, un mondo infernale fatto di guerriglia continua, morti in famiglia e spostamenti, senza poter nemmeno uscire di casa – o dai rifugi temporanei – anche per mesi.
In Europa e altrove nella diaspora musulmana lo schema di reclutamento è diverso. Circa un terzo, un quarto delle persone che si uniscono ad Al Qaeda e all’ISIS lo fa tramite amici; gli altri soprattutto attraverso legami familiari o compagni di percorso, in cerca di una vita dal significato degno.
É piuttosto raro che i genitori siano al corrente del desiderio dei figli di integrare i ranghi del movimento: nelle case dei rifugiati i genitori musulmani non parlano volentieri dei fallimenti della politica estera e dell’ISIS. Argomenti che i loro figli, al contrario, sono ansiosi di conoscere.
La maggior parte dei volontari e simpatizzanti rientra appieno in quella che gli scienziati sociali chiamano la ‘normale distribuzione’ in termini di facoltà psicologiche, vale a dire l’empatia, la compassione, l’idealismo e la propensione a dare una mano più che a nuocere al prossimo. È per lo più una gioventù in fase transitoria nella vita: studenti o migranti, in bilico tra lavori e amici; giovani che hanno lasciato o stanno per lasciare le loro famiglie per trovarne di nuove, o nuovi amici e compagni di viaggio con cui condividere la ricerca di nuovi significati.
La maggior parte di essi non ha avuto un’educazione religiosa tradizionale, e spesso ha trovato la rinascita in un senso di missione religiosa socialmente e ideologicamente ristretta – ma di respiro globale. Anzi, è proprio quando coloro che praticano rituali religiosi vengono espulsi dalle moschee per l’espressione di idee politiche radicali che lo scivolamento verso la violenza diviene più probabile.
La scorsa estate un sondaggio ICM ha rivelato che tra i giovani francesi (18-24 anni) di tutte le confessioni 1 su 4 ha un’opinione favorevole all’ISIS.
Questo mese a Barcellona 5 degli 11 simpatizzanti dell’ISIS che sono stati arrestati, e che progettavano di far saltare in aria parti della città, erano atei o cristiani recentemente convertiti. L’alleanza decisamente poco santa di nazionalismo xenofobo e jihad militante, che fa leva sulle paure reciproche, sta iniziando a destabilizzare la classe media europea esattamente come il fascismo e il comunismo fecero negli anni ’20 e ’30’; e alimenta la volontà di sacrificio sia tra i nazionalisti xenofobi sia tra i militanti jihadisti.
Dall’altro lato la nostra ricerca mostra che anche tra la gioventù occidentale gli ideali democratici e liberali non ispirano più la volontà di sopportare sacrifici così profondi per la loro difesa. L’Europa ha un tasso di natalità di 1.4 a coppia, il che significa che senza una massiccia immigrazione non può sostenere la solida classe media che costituisce il fondamento di ogni società democratica stabile.
Nello stesso tempo l’Europa è più lontana da una gestione efficiente dei problemi dell’immigrazione di quanto lo sia mai stata. Come ci ha detto una giovane donna della banlieue parigina Clichy-sur-Bois, le piacciono molto le persone con cui esce, non si sente né araba ne francese, e poiché sarà sempre guardata con sospetto, sceglierà il Califfato per contribuire a creare una patria in cui i musulmani possono unire le forze, riconquistare la loro potenza e vivere con dignità.
La popolare idea di “scontro di civiltà” tra l’Islam e l’Occidente è tristemente fuorviante. L’estremismo violento non rappresenta un revival delle culture tradizionali ma piuttosto il loro collasso, giacché i giovani privati di ogni stella polare, slegati da ogni millenaria tradizione, si dimenano in cerca di un’identità sociale che offra gloria e ricchezza di significato.
Questo è il lato oscuro della globalizzazione. Si radicalizzano per trovare un’identità stabile e definita in un mondo appiattito: le linee verticali di comunicazione tra generazioni vengono rimpiazzate da linee orizzontali di connessioni tra pari che possono estendersi globalmente.
I giovani i cui avi erano animisti dell’età della pietra a Sulawesi, decisamente lontane dal mondo arabo, mi hanno detto di sognare di combattere in Iraq o Palestina per difendere l’Islam.
Anche se tipicamente vengono immaginati in termini militari, Al Qaeda, l’ISIS e i gruppi connessi costituiscono una minaccia enorme come movimenti contro-culturali, i cui valori si propongono come contraltare al sistema stato-nazione (rappresentato in questa sede dalle Nazioni Unite) e alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo.
Questo movimento ha attirato i giovani di ogni luogo nella guerra più vasta e più extra-territoriale dalla seconda guerra mondiale. E come ci è voluto più di un decennio perché Al Qaeda diventasse una minaccia globale, potrebbero volerci molti anni prima che vediamo l’effetto reale dell’ISIS, e questo anche se sarà spodestata dalla sua attuale base territoriale. A meno che capiamo queste potenti forze culturali, falliremo nell’affrontare la minaccia. Quando, come ora, l’attenzione è alle soluzioni militari e alle azioni di polizia, la vicenda è già sfuggita di mano.
Se questa attenzione non si sposta, perderemo la prossima generazione.
Quindi: che cosa può essere fatto? Per prima cosa continuare il vostro importante lavoro sui problemi dello sviluppo, dell’immigrazione e dell’integrazione, con l’obiettivo di trasformare la tanto deprecata “bolla di giovani” in una “spinta di giovani”, liberando l’energia e l’idealismo che la giovane età racchiude.
Secondo, permettetemi di delineare brevemente tre condizioni di cui i giovani, ritengo, hanno bisogno. Ogni Paese dovrebbe creare e adattare queste condizioni in base alle proprie circostanze.
1) IDEALISMO
La prima condizione: offrire ai giovani qualcosa che li faccia sognare, un significato che possano dare alla vita attraverso lo sforzo, il sacrificio e il cameratismo. È quello che offre l’ISIS.
Secondo Idaraat at-Tawahoush (“The Management of Savagery”), il manifesto di Al Qaeda in Mesopotamia, e ora dell’ISIS, prevedeva un piano di comunicazione globale che dovrebbe spingere la gioventù a “volare nelle regioni che controlliamo” […] perché la gioventù della nazione è più vicina alla vera natura umana in virtù della loro intrinseca propensione alla rivolta, che gli immobili gruppi islamici tentano solamente di sopprimere.
Quando ascolto un ennesimo, stanco appello all’Islam moderato – di solito da parte di chi ha qualche anno in più di me – chiedo: “Stai forse scherzando? Nessuno di voi ha dei figli adolescenti? Quando qualcosa di moderato ha mai avuto una forza attrattiva presso i giovani che sognano avventure, gloria e significato?
Chiedete a voi stessi: quali sogni possono derivare dalle politiche attuali, che offrono ben poco oltre alle promesse di comfort e sicurezza?
In effetti, i giovani non sceglieranno di sacrificare tutto, vite comprese, solamente per delle ricompense materiali. E le ricerche confermano che ricompense e punizioni materiali possono solo spingere chi è realmente devoto alla causa verso atti ancora più estremi.
Altre ricerche, invece, mostrano anche che il più grande segnale della volontà di sacrificarsi è unirsi ad altri compagni per una causa sacra, che dà a tutti un senso di destino speciale e la volontà di combattere. È ciò che permette a gruppi rivoluzionari e ribelli deboli di resistere, e spesso prevalere, contro nemici materialmente più forti che dipendono da incentivi materiali, come gli eserciti e le polizie che fanno affidamento principalmente sulla paga e sulle promozioni, più che sul dovere sentito e percepito di difendere la nazione.
Valori considerati sacri devono essere combattuti con valori altrettanto sacri, oppure sfilacciando il tessuto sociale in cui questi si radicano.
2) REALIZZAZIONE
La seconda condizione: offrire alla gioventù un sogno positivo e individuale con una concreta possibilità di realizzazione. Il fascino di Al Qaeda o dell’ISIS non è dovuto ai siti jihadisti, che sono per lo più ciance ampollose – anche se possono essere un elemento di avvicinamento iniziale.
È dovuto a quello che viene dopo.
Ci sono quasi 50.000 hashtag di twitter che appoggiano l’una o l’altro, con una media di 1000 followers ciascuno. Sono popolari perché offrono opportunità di partecipazione personale là dove le persone hanno un pubblico con cui condividere e elaborare i loro torti, speranze e desideri.
Al contrario, i programmi governativi di partecipazione sociale offrono solitamente narrative ideologiche o religiose generiche, che sembrano del tutto avulse dalle personali vicissitudini del pubblico. Non possono creare la rete sociale intima così fondamentale per i sognatori.
Inoltre, il contenuto della contro-narrativa è per lo più negativo, del tipo: “E così Daesh vuole costruire un futuro – il futuro che vuoi è la decapitazione, è qualcuno che ti impone una dieta o un modo di vestirti preciso?“.
È mai possibile che qualcuno ancora non lo sappia?
Questi ammonimenti hanno forse qualche effetto su chi ha aderito alla causa malgrado, o magari a causa di, simili cose?
Come una ragazzina di una periferia di Chicago ha ribattuto agli agenti dell’FBI che le hanno impedito di volare in Siria: “Beh, che dire delle bombe-barile che fanno migliaia di morti? Magari decapitare aiuta a fermare quei bombardamenti“. Senza contare che per alcuni la rigorosa obbedienza libera da ogni incertezza riguardo a questioni morali.
Inoltre, una volta che sei convinto della rettitudine morale della missione, allora la violenza spettacolare non fa passare l’entusiasmo, ma anzi sublima e rinforza, proprio come Edmund Burke ha scritto riguardo alla Rivoluzione Francese: la nozione moderna del Terrore è una difesa di emergenza dal cambiamento politico radicale.
E non commettiamo l’errore di credere che chi aderisce alla jihad militante o al nazionalismo xenofobo, per quel che conta, sia nichilista. È un’idea perorata da chi volontariamente rifiuta di considerare l’attrattiva morale, e dunque il reale pericolo, di questi movimenti. Essere pronto a morire per uccidere altri richiede una convinzione morale profonda.
A Singapore la scorsa settimana alcuni, parlando per i governi occidentali, sostenevano che il Califfato è mitologia volta a coprire un tradizionale potere politico. Le ricerche sviluppate con chi si unisce alla causa mostrano che si tratta di un fraintendimento pernicioso. Il Califfato è riemerso come una causa di mobilitazione nelle menti di molti musulmani.
Come un Imam di Barcellona ci ha detto, “Sono contro la violenza di Al Qaeda e dell’ISIS, ma hanno portato la nostra condizione in Europa e altrove sul mappamondo. Prima eravamo semplicemente ignorati. E il Califfato… Lo sogniamo, così come gli ebrei hanno a lungo sognato Sion. Forse può essere una federazione di persone musulmane, come l’Unione Europea. Il Califfato è qui, nei nostri cuori, anche se non sappiamo quale sarà la sua forma reale”
Continuando a ignorare queste passioni, rischiamo di fomentarle. E ogni impegno serio deve essere in sintonia con le persone e le loro reti, non sotto forma di marketing di massa fatto di messaggi ripetitivi.
I giovani empatizzano tra di loro, non tengono lezioni l’un l’altro. Dalla Siria, una giovane donna messaggia con un’altra: “Lo so quanto è duro abbandonare la madre e il padre che ami, e non dir loro niente finché sei qui; dir loro che li amerai per sempre ma che sei su questa terra per fare qualcosa più che onorare o stare con i tuoi genitori. So che probabilmente sarà la cosa più dura che dovrai mai fare, ma lascia che ne parli a te e a loro“.
3) OPPORTUNITA’
La terza condizione: offrire ai giovani l’opportunità di creare le proprie iniziative locali.
Le ricerche di scienze sociali indicano che le iniziative locali, nate con una partecipazione in scala ridotta, sono meglio dei programmi nazionali, su vasta scala, per ridurre la violenza.
Non importa con quale agenzia governativa intendiate incentivare questo aspetto. Fate in modo che la gioventù sia coinvolta nella ricerca di modi significativi di trattare le loro questioni personali, siano esse questioni di oppressione e marginalizzazione politica, di mancanza di opportunità economiche, di traumi legati all’esposizione alla violenza oppure di problemi di identità ed esclusione sociale.
E soprattutto promuovete la partecipazione individuale mediante un reciproco supporto e con il supporto di mentori ben radicati nella comunità – perché quella su cui l’estremismo si estende, quella che aspetta e cerca di universalizzare come azione violenta e oltraggio morale, è quasi sempre una particolare circostanza personale, condivisa con gli amici.
Prendete come esempio questo: ad appena 16 anni Gulalai Ismail e sua sorella Saba hanno creato la rete Seeds of Peace con un gruppo di compagni di scuola, per cambiare le vite delle giovani donne a Khyber Pakhtunkhwa in Pakistan.
Hanno iniziato concentrandosi sullo spazio delle donne nella società; poiché la loro cerchia si è estesa stanno formando altri giovani attivisti come “local peace builders”, sfidando la violenza e l’estremismo.
Hanno formato 50 persone negli ultimi due anni per aggregarsi e promuovere la tolleranza, la non-violenza e la pace. La loro idea è così popolare che lo scorso anno avevano più di 150 nuovi candidati. I 50 giovani volontari stanno dedicandosi a loro volta, nelle loro comunità, alle persone più vulnerabili alla radicalizzazione. Tengono sessioni di studio e colloqui individuali con queste persone per sviluppare e promuovere l’idea di un futuro pacifico.
Il progetto, ancora ai suoi primi passi, coinvolgerà quasi 1500 persone nei prossimi 3 anni, sviluppando un movimento di attivisti contro l’estremismo politico e religioso. I risultati, benché Gulalai Ismail non lo dica in pubblico, sono ben più che notevoli.
Immaginate un arcipelago globale di simili costruttori di pace.
Se potete trovare soluzioni concrete per aiutarli e per supportarli senza provare a controllarli, potrebbero decisamente far prendere un altro percorso al futuro.
Riassumendo, ciò che più importa è la qualità del tempo e l’attenzione dei giovani verso i giovani, che comprendono che i fattori scatenanti possono essere assai diversi a seconda del contesto, malgrado ciò che è in comune.
Che sia per un giovane padre di Kirkuk, una ragazzina di Parigi, amici di quartiere dal Marocco o compagni di liceo di Fredrikstad, in Norvegia, è necessaria una dinamica che sia a un tempo globale e intimamente personale – che coinvolga non soltanto idee imprenditoriali, ma anche attività fisiche, musica e intrattenimento – per contrastare la crescente cultura globale dell’estremismo violento.
Scott Atran
Traduzione di Edoardo Frezet
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