In qualsiasi modo vada a finire, le elezioni del 2016 segneranno la storia; non solo se vincerà Trump, che attualmente è il favorito del partito repubblicano.
Se vincerà Cruz, sarà il primo Presidente di origine cubana – o canadese? – proprio nell’anno in cui un Presidente americano visita l’isola per la prima volta da 90 anni.
Se Hillary Clinton dovesse aggiudicarsi le elezioni di novembre, a Bill toccherebbe rivoluzionare il concetto di First Lady, e saremmo tutti curiosi di leggere le sue ricette della White House Kitchen.
Sarebbe una rivoluzione anche se toccasse a Sanders, per quanto sembri improbabile: il primo presidente ebreo, anche se agnostico, ma, ancor più importante, il primo a definirsi socialista. Una svolta inedita per il Paese che ha fatto della lotta al comunismo la sua bandiera per più di mezzo secolo.
Fino a gennaio la nomination democratica era considerata una mera formalità, e si pensava alle elezioni primarie come a una marcia trionfale di Hillary in giro per gli Stati. Poi l’imprevisto: in inverno Sanders è cresciuto costantemente, e con gli ottimi risultati in Iowa e New Hampshire ha sparigliato le carte in tavola.
Da quel momento la corsa è sempre stata avvincente e interessante, a tutto vantaggio del partito democratico: il dibattito prolungato permette ai candidati di spiegare in dettaglio ogni posizione e fa conoscere agli elettori il loro lato umano; l’attenzione resta alta, l’affluenza aumenta, il partito può vantare ottimi numeri.
Sta di fatto che Sanders non è un semplice sparring partner. Il suo obiettivo non è tenere caldi i muscoli di Hillary, ma dare battaglia per la Casa Bianca: quando Katie Courtic della CBS gli ha chiesto se “è interessato a diventare vice-presidente di Hillary?”, la sua candida risposta è stata: “E lei è interessata a diventare la mia vice-presidente?”.
Sanders e la Clinton hanno idee assai diverse, frutto di storie politiche egualmente diverse. Sanders, posizionandosi come l’outsider che non rappresenta l’establishment, bensì “gli americani ordinari”, può permettersi di andare ben più a sinistra di Hillary: propugna una politica social-democratica esplicitamente ispirata ai Paesi scandinavi e identifica nelle oligarchie economiche di Wall Street, e nella loro nefasta influenza sul mondo politico, il nemico numero 1.
Dopo aver perso da grande favorita nel 2008, contro Obama, Hillary è tornata alla riscossa con più esperienza e con la forza di un partito a sua disposizione. La macchina organizzativa democratica le ha permesso di raccogliere 489 endorsements ufficiali, contro i 6 – proprio così, 6 – di Bernie.
Come rappresentante ufficiale del fronte democratico, Hillary ha adottato una narrativa razionale e affidabile, presentandosi come l’erede naturale di Obama. Forte della sua esperienza come Segretario di Stato, e con un solido curriculum alle spalle, la Clinton mostra una predilezione per le posizioni “centriste” in politica interna e una tendenza più da falco in politica estera: una combinazione decisamente efficace per unificare la nazione.
Hillary ha occupato lo spazio di centro-sinistra sicura di conservare i democratici soddisfatti di Obama e di attirare, con la sua moderazione, i repubblicani che non si rispecchiano nei candidati estremisti del GOP.
Obama, pur non appoggiando ufficialmente nessuno, ha recentemente chiamato a raccolta i donatori del partito per supportare Hillary; eppure le cose non stanno andando come previsto. Hillary sta affrontando qualche difficoltà extra, e cercando tra le varie cause viene spontanea una domanda: è proprio vero che Obama è stato un Presidente moderato e unificatore?
UN PAESE POLARIZZATO
Come racconta Peter Beinart in questo bellissimo articolo, gli otto anni di Obama sono una svolta storica per gli Stati Uniti, e non perché è stato il primo Presidente nero. Molto di più perché è stato un Presidente molto divisivo, come chi in un periodo difficile ha compiuto scelte coraggiose modificando irreversibilmente l’assetto degli Stati Uniti (basti pensare a Lincoln o Roosevelt). Ovviamente Obama non ha agito come un cavallo pazzo o un tiranno comunista (sì, se ascoltiamo le critiche dei repubblicani), ma ha assecondato o guidato a seconda dei casi il sentimento comune, il cui baricentro è slittato decisamente a sinistra in seguito alla crisi del 2008 e ai conflitti in Iraq e Afghanistan.
Dopotutto è stato eletto con lo slogan CHANGE, e si può dire che ha mantenuto la promessa.
Obama lascerà il Paese molto più polarizzato di quanto l’abbia trovato. Ad oggi nulla fa intendere che l’opinione pubblica sia sul punto di ritornare al centro o sia in una fase di risacca. L’economia si è ripresa, ma le classi media e povera non ne traggono benefici adeguati; i movimenti civili sono cambiati, ma non si sono smorzati: la questione LGBT è sempre in primo piano, e il 2015 ha portato alla ribalta la violenza della polizia e la questione razziale; Occupy Wall Street non esiste più, ma l’ostilità verso l’establishment finanziario rimasto impunito non ha fatto che diffondersi.
Abbiamo la risposta che cercavamo: no, Obama non è stato affatto un Presidente unificatore, e la stessa opinione pubblica è molto più schierata che in passato. Questo clima trova Hillary del tutto in controtempo, intenta nella ricerca di un compromesso al centro mentre l’opinione pubblica è sempre più polarizzata e sempre meno alla ricerca di equilibrio; lo conferma anche anche il suo omologo repubblicano, John Kasich, che arranca dietro l’estremista Cruz e l’anomalo Trump.
Lo conferma, se serve, anche il fatto che le critiche mosse a Sanders – socialista, estremista – vanno a vuoto, esattamente come le critiche mosse a Trump perché “non è un democratico”. Agli elettori Sanders piace perché è radicale ed è socialista (o meglio social-democratico), e sono sempre più numerose le persone che vedono ciò positivamente.
Mentre Hillary si barcamena tra un sì e un forse per non offendere il no, il senatore rifiuta i compromessi e mantiene posizioni ferme e decise. Individua nemici definiti e si riferisce a dinamiche precise – Wall Street e la sua influenza nefasta sulla politica – il che è talvolta semplicistico, ma sempre efficace.
Questa differenza di attitudine non è casuale, ma è legata a una diversa visione di come gli Stati Uniti dovrebbero affrontare il futuro.
Quindi, ecco il mio punto: non la Clinton, ma Sanders è l’erede di Obama, perché al contrario di Hillary esprime una visione cui aspirare. Beninteso, niente di trascendentale in queste parole: la differenza è, se vogliamo, logica. Hillary parte dalla realtà e cerca di avanzare per compromessi, passo dopo passo, per mantenere unita la nazione; Sanders si pone un obiettivo ed è pronto a farsi nemici se ciò permette di raggiungerlo.
I commentatori americani hanno dato a questa differenza nomi diversi di volta in volta: realismo contro idealismo, cambiamento incrementale contro rivoluzione, cambiamento dall’alto contro cambiamento dal basso. Qualsiasi nome si dia, la differenza è che la gerarchia tra punto di partenza e obiettivo è inversa: reality-based oppure ideal-oriented?
Per capire se tocca a Hillary o a Bernie recuperare il testimone di Obama, proviamo ad analizzare il comportamento e le idee dei due candidati, senza considerare le debolezze della prima – la pochissima fiducia di cui gode anche tra i suoi elettori a causa dei piccoli ma numerosi scandali che ne minano la credibilità – e le lacune del secondo – il populismo e la riduzione della maggior parte delle questioni al problema della finanza selvaggia.
C’È DEL SOCIALISMO IN DANIMARCA: LA POLITICA INTERNA
Dal 2009 Obama ha introdotto in molti ambiti cambiamenti sostanziali, destinati a durare, e lo ha fatto con l’opposizione crescente di un congresso sempre più repubblicano. Come si posizionano i due aspiranti successori di Barack rispetto ai diversi temi?
- Controllo delle armi: nonostante le stragi degli ultimi anni, il governo federale non è riuscito a superare l’opposizione dell’NRA (National Rifle Association), principale lobby pro-armi, e Obama è riuscito soltanto a introdurre migliorie marginali sui background check, i controlli per chi acquista armi. Piccole cose, nessuna rivoluzione. È improbabile che da qui alla fine del mandato le cose cambino radicalmente.
Sia Sanders sia Clinton intendono proseguire il suo operato, ma nel frattempo i democratici rinfacciano al senatore di aver votato a favore della PLCAA, cioè l’immunità dei produttori di armi rispetto ai crimini commessi con i loro prodotti. È assolutamente vero: Sanders ha votato a favore della PLCAA nel 2005, perché riteneva il provvedimento assurdo. Secondo la stessa logica, ha notato, “se qualcuno uccide un altro con un martello, allora il produttore del martello dovrebbe essere ritenuto responsabile.”
Se da un lato è vero che Sanders non è così angosciato dal tema delle armi, forse anche provenendo da uno Stato in cui la caccia è un’attività di primaria importanza, dall’altro il voto del 2005 lo distingue dai democratici sottolineando la sua autonomia. In fondo è stato eletto da indipendente come sindaco e come senatore.
- Diritti civili e giustizia: Obama ha introdotto importanti cambiamenti, vedi ad esempio sul matrimonio gay e sulla depenalizzazione dei reati di droga non violenti.
Su questo fronte Bernie ha dalla sua la coerenza di 50 anni di attività politica. Hillary, invece, era contraria al matrimonio gay fino al 2008, e gli elettori democratici sono assai diffidenti rispetto a questa evoluzione così radicale. Un discorso simile vale per la pena di morte: per Sanders è “no”, Hillary commenta così (traduco liberamente da qui): “Non ci si può fidare degli Stati per gestire la pena capitale in modo equo, e sarebbe bello che gli Stati oppure la Corte Suprema la eliminassero. Tuttavia, bisogna conservarla per crimini particolarmente atroci delegati al sistema federale”; ma Hillary non ha specificato dove dovrebbe essere la linea di demarcazione dei crimini atroci né in quali casi dovrebbero essere gestiti dal governo federale. - Ecologia: Obama ha lavorato molto per rivoluzionare la politica ecologica americana, passando da pecora nera tra i Paesi sviluppati a pioniere dell’innovazione. La strada è ancora impervia, e il prossimo presidente potrà fare la differenza.
Hillary era partita puntando forte sulla questione climatica nel 2014, ma aveva lasciato perdere con l’avvicinarsi delle primarie; poi è spuntato Bernie, con un programma dettagliato e ambizioso, anche se non privo di difetti; il tempo di incassare il colpo e proprio pochi mesi fa l’ex first lady è tornata all’attacco con un piano più aggressivo. Ma è ancora insufficiente, dato che è una timida continuazione del programma di Obama.
Su questo tema Bernie è difficilmente attaccabile: a fine 2015 Seth MacFarlane e l’impegnatissimo Leo Di Caprio hanno appoggiato Sanders colpiti dal suo ambientalismo; ma un paio di giorni fa Sanders ha ottenuto l’appoggio ufficiale di madre natura e non c’è bisogno di altro.
- Economia e lavoro: Obama ha risposto alla crisi in modo efficace, il mercato è in ripresa. Non ha tuttavia limitato efficacemente il potere del settore finanziario, cosa che chiedeva il suo elettorato, e ha da poco stipulato accordi commerciali con l’emisfero orientale (l’accordo TPP).
Hillary, figlia di Wall Street e fautrice degli accordi NAFTA con il Sud America, si trova in una posizione poco invidiabile. Lo scandalo dei discorsi pagati profumatamente non la aiuta di certo, dato che Sanders fa della questione finanziaria il fulcro della sua politica interna. E anche in questo Bernie ha dalla sua una coerenza ineccepibile – è il primo candidato in assoluto a non essere finanziato da un PAC, i comitati di donatori – abbinata alla semplicità delle proposte, come ad esempio alzare lo stipendio minimo a 15 dollari.
In conclusione, Hillary è più in linea con Obama, ma Bernie è decisamente più in sintonia con l’opinione pubblica. - Sanità, educazione, veterani: l’Affordable Care Act, alias Obamacare, è stata sicuramente una riforma epocale, che ha dato una copertura sanitaria a 15 milioni di americani che ne erano sprovvisti.
Hillary vuole estenderla, cosa che non è sufficiente per Bernie: il suo obiettivo è introdurre un sistema sanitario pubblico ispirato a quello dei Paesi scandinavi, che rappresentano il suo ideale social-democratico.
Discorso uguale per l’ambito educativo, che il senatore vuole rendere economicamente accessibile a tutti,e per il delicato problema dei veterani – una questione di cruciale importanza. Il programma di assistenza sanitaria e lavorativa ai veterani lo ha reso il secondo candidato più apprezzato dai militari (dopo Trump, e con il doppio delle preferenze di Hillary).
In generale, il Nord Europa, e in particolare la Danimarca, è agli occhi di Sanders il faro della social-democrazia, l’esempio da cui gli Stati Uniti dovrebbero trarre insegnamento. In virtù di ciò i repubblicani mettono in guardia il popolo americano contro le “tentazioni del socialismo“, la statalizzazione del mercato, l’annullamento delle libertà individuali.
Dipingono Sanders ora come una sorta di Kruscev americano, che sotto le stelle e le strisce nasconde la falce e il martello e aspetta di conquistare la Casa Bianca per svelare il suo gioco, ora come il rappresentante di un nuovo nazismo.
D’altra parte parlano di Obama più o meno negli stessi spaventosi termini, come di un rosso che sta cercando di distruggere i valori americani: il ritornello di Rubio, per citarne uno, era appunto “Obama sta coscientemente lavorando per distruggere l’America”.
Niente di eclatante, quindi: il partito sfidante declina in vari modi la retorica apocalittica, dipingendo una nazione sull’orlo del baratro che rischia di scomparire a meno che una decisa inversione di marcia la riporti all’età dell’oro. il GOP fa sua la dottrina dell’eccezionalismo americano, vale a dire la superiorità dell’american way rispetto ad altre identità culturari.
Semplificando, l’eccezionalismo è il gemello nobile (perché se non altro ha una radice storica precisa) del nazionalismo, e come quest’ultimo induce a diffidare di ogni influenza straniera in politica interna e a farsi arbitri dei conflitti in politica estera.
È più sorprendente invece che il partito democratico, rappresentato al momento da Hillary, adotti una visione di questo tipo: quando Sanders ha affermato che gli Stati Uniti dovrebbero prendere esempio dall’amata Danimarca Hillary Clinton ha risposto “Non siamo la Danimarca” (affrettandosi poi a precisare: “adoro la Danimarca”). Non esistono soluzioni non-americane ai problemi americani, dice Hillary, che “crede tuttora nell’eccezionalità dell’America”.
ECCEZIONALISMO O INTERNAZIONALISMO? LA POLITICA ESTERA
Nel 2007, in lotta per le primarie, Obama dichiarò che avrebbe incontrato i leader di Siria, Iran, Venezuela, Cuba e Nord Corea senza precondizioni. Hillary definì “irresponsabile e francamente naïf” quel proposito. Nove anni dopo, l’accordo sul nucleare con l’Iran ha segnato un cambio di passo netto, avviando una distensione prima impensabile; la visita a Cuba è la Storia che si dipana proprio di fronte ai nostri occhi, curando le ferite della Guerra Fredda.
In questi otto anni di presidenza, i cui ultimi mesi promettono sorprese, Obama ha seguito la sua specialissima dottrina “don’t do stupid shit” rivoluzionando la gestione della politica estera. Nei primi mesi alla Casa Bianca affermò: “Credo nell’eccezionalismo americano, così come sospetto che gli inglesi credano nell’eccezionalismo inglese e i greci nell’eccezionalismo greco.” E precisò che “dobbiamo creare partnership, perché non possiamo risolvere i problemi da soli”.
Obama si è posto l’ambizioso obiettivo di interrompere il militarismo americano (ove possibile) operando una transizione da “arbitro militare”, come vuole la linea eccezionalista, ad arbitro diplomatico. Una scelta coraggiosa e in piena rottura con la tradizione, perché avviare una de-scalation è molto più delicato che assecondare l’aggressività: cercare l’accordo fa apparire deboli, implica una rinuncia all’orgoglio, impedisce soddisfazioni a breve termine e richiede una flessibilità che l’intervento militare può ignorare.
Per questa ragione Obama è stato sommerso di critiche quando ha deciso di non intervenire in Siria, malgrado Assad avesse oltrepassato la linea di demarcazione delle armi chimiche. Mettendo da parte l’orgoglio e dimostrandosi flessibile, il Presidente si è rimangiato la parola, e ha preferito passare per remissivo piuttosto che innescare un ennesimo conflitto senza via d’uscita.
Per questa ragione sta affrontando simili critiche per la chiusura di Guantanamo, ulteriore simbolo di un cambiamento di passo nel modo di vedere il ruolo americano nel quadro globale.
Per questo obiettivo ha riaperto le relazioni con l’Iran; l’accordo sul nucleare è stato l’inizio di una nuova relazione tra i due Paesi, relazione che per ora ha permesso di risolvere in quindici ore l’incidente dei marinai americani, con tanto di celebrazioni bilaterali su Twitter.
A febbraio 2016 il tema della politica estera è venuto a galla tra i candidati. Hillary rinfacciava al senatore la mancanza di esperienza, il senatore rinfacciava a Hillary la mancanza di giudizio per aver approvato l’intervento in Iraq nel 2002.
In quel discorso al Senato Sanders elencò le ragioni che lo portavano a opporsi alla guerra: legittimità dell’intervento nel quadro delle relazioni internazionali, costi umani, gestione del dopoguerra. In quell’occasione anche Obama si oppose all’intervento contro Saddam, adducendo ragioni pressoché identiche. Già allora Obama si atteneva alla regola “don’t do stupid shit” ed era contrario a quella dumb war. Una somiglianza che si aggiunge al fatto che sia Obama che Sanders sono decisi estimatori di Brent Scowdcroft, consigliere militare di Bush senior.
Il voto del 2002 è una macchia pesante sul curriculum di Hillary. Per di più negli anni da Segretario di Stato non è riuscita a lavarla, ma anzi ha collezionato altri passi falsi: in particolare la gestione della Libia e le posizioni dure su Iran e Cuba, che è stata costretta a ritrattare. Non solo. Hillary non ha mai nascosto le sue posizioni più interventiste, e ha anche ufficialmente criticato Obama dicendo che “le grandi nazioni hanno bisogno di principi organizzativi, e “don’t do stupid shit” non è un principio organizzativo.
Alcuni giorni fa, ciliegina sulla torta, Bill Clinton è incorso in una gaffe di prim’ordine affermando che Hillary è la persona giusta per lasciare alle spalle “la terribile eredità degli ultimi otto anni” – quelli di Obama.
Quanto a Sanders la situazione è chiarissima. Prendere esempio dalla Danimarca per le questioni interne lo colloca già al di fuori della tradizione eccezionalista del “siamo i numeri 1”, e lo stesso vale per come interpreta le relazioni internazionali.
I riferimenti frequentissimi alle “altre grandi nazioni” dimostrano che l’eccezionalismo, se esiste, è diventato un motivo di scherno: gli Stati Uniti hanno tutto da imparare, poco o nulla da insegnare. Per rendere l’idea, nella celebre clip di The Newsroom ci dovrebbe essere Bernie Sanders al posto dell’arrabbiato Jeff Daniels, a spiegare perché gli Stati Uniti non sono più il più grande Paese del mondo.
Folklore a parte, Sanders ha più volte espresso apprezzamento per la linea di Obama, e si trova assolutamente d’accordo sul fatto che gli Stati Uniti non devono più essere i poliziotti del mondo. Non vi è dubbio, in sintesi, che il sentiero rivoluzionario tracciato da Obama possa proseguire con il senatore del Vermont più che con la Clinton.
CONCLUSIONE: HEART VS HEAD
Spesso i commentatori riassumono le differenze tra Hillary e Bernie con l’espressione head vs heart – lei conquista la testa, lui parla al cuore. L’ex first lady, pur non riuscendo mai a essere coinvolgente, trascina gli elettori ai seggi con la forza degli argomenti per trascinare gli elettori ai seggi.
A un esame attento però sembra che la solidità degli argomenti non sia una prerogativa di Hillary, e ancor meno la continuità con il sentiero tracciato da Obama. D’altra parte, come Sanders ha sornionamente detto, “otto anni fa uno di noi ha corso contro Obama, e non ero io quel candidato”.
Edoardo Frezet
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