Sono giornate davvero delicate per il Partito Democratico, e fare previsioni ed analisi è davvero difficile e forse pleonastico.
Proviamo dunque ad analizzare uno dei punti politici più salienti di cui certo si discuterà nei prossimi mesi all’interno del PD (e non solo): l’elezione del Segretario attraverso le cosiddette “Primarie aperte”.
Come al solito, partiamo prima da un po’ di storia. Questo “istituto” è un’assoluta anomalia nel panorama politico, credo, mondiale. Non vi è traccia infatti di questa modalità di eleggere il proprio leader in nessun partito occidentale. Neanche in quei partiti che hanno chiaramente ispirato questa scelta, il Partito Democratico americano e il partito Laburista inglese.
Negli Stati Uniti, infatti, oltre a non esservi coincidenza tra capo del partito e candidato Presidente, la selezione del candidato alla Casa Bianca viene fatta tra persone che hanno precedentemente dichiarato la loro appartenenza al Partito Democratico registrandosi con apposite procedure – simili sono le modalità nel Partito Repubblicano – e quindi le primarie non sono affatto “aperte”, pur non essendo limitate agli iscritti del partito.
In Inghilterra vi è coincidenza tra segretario e Primo Ministro (o capo del “governo ombra”), al punto che decadere dalla carica di segretario implica l’immediata dimissione da quella di Capo del Governo: fu così che accadde per l’avvicendamento in corsa tra Tony Blair e Gordon Brown. La nomina a capo del partito laburista avviene tramite una competizione tutta interna. Il sistema è complesso, ma sostanzialmente votano dei “grandi elettori” in rappresentanza dei gruppi che, federati, formano il Labour (cioè sindacati, associazioni culturali, gruppo parlamentare e infine le federazioni locali – grazie a Palmiro per la consulenza). Chiaramente questi sono i due modelli che hanno ispirato lo statuto del Partito Democratico, così come lo fondò Walter Veltroni.
Ma la domanda è: com’è possibile che si sia fatto un mix dei due aspetti (elezione tramite primarie e coincidenza tra Segretario e candidato premier), aggiungendo una così macroscopica innovazione (le primarie aperte a tutti i cittadini)? È una bella domanda, che trova due risposte: una dettata dalla tattica l’altra dalla strategia.
Quella tattica fu certamente che il PD era la fusione, sostanzialmente, tra due partiti, DS e Margherita, di diverse dimensioni e con strutture assai differenti. Quella dei Democratici di Sinistra era una formazione decisamente più grossa di quella della Margherita; una formazione decisamente più “strutturara” ed abituata alla militanza di partito. Limitare l’elezione del segretario agli iscritti avrebbe verosimilmente portato all’inevitabile fagocitazione della minoranza popolare che invece, pur avendo sempre perso le competizioni principali, potendo contare su una platea più ampia ha potuto dare prova di un maggior peso (rispetto a quello che avrebbe avuto tra i soli iscritti).
Quella strategica era dettata dalla cosiddetta vocazione maggioritaria: volendo il PD “correre da solo” alla guida del Paese, aveva bisogno di uno strumento per legittimare nella società la propria leadership. In questa ottica una competizione aperta a tutti i cittadini – e che aveva già avuto il precedente nella nomina di Romano Prodi a capo dell’Unione – apparve come uno strumento naturale.
Ad oggi tuttavia sono venuti meno praticamente tutti i presupposti che rendevano utile questo strumento e queste modalità di selezione del Segretario. Proviamo a dire schematicamente perché.
La prima ragione è politica. La scelta di Bersani è stata quella di abbandonare la vocazione maggioritaria. Il Partito Democratico ha infatti deciso di non correre da solo, cercando invece alleanze con altre forze – inizialmente SEL e IDV; secondariamente con SEL, Centro Democratico e in alcune regioni con i Moderati. Inoltre alla luce del risultato delle elezioni di febbraio pare evidente che l’idea del bipolarismo dell’elettorato italiano sia da accantonare visto che tre forze hanno ottenuto un risultato sostanzialmente identico.
Stante così le cose è dunque impensabile l’idea di voler imporre un nome per la premiership anni prima se poi per andare al governo è necessario trovare alchimie politiche che prevedono flessibilità: prova ne sia l’impossibilità di Bersani di trovare un accordo per un gabinetto guidato da lui, seguita dal successo del suo Vice Enrico Letta.
La seconda sta a metà tra la logica e i regolamenti. Ad oggi, infatti, non esiste già più la coincidenza tra Segretario del PD e candidato premier: precisamente, non c’è più dal giorno in cui si è deciso di modificare l’art. 18 dello Statuto del partito (un numero che pare studiato apposta per creare grattacapi alla sinistra italiana) per permettere a Matteo Renzi di partecipare alle primarie per la premiership. Ricorderete infatti la polemica che ci fu in merito.
Lo Statuto prevedeva che le primarie potessero essere solo di coalizione, cioè tra i candidati dei partiti che avessero deciso di correre insieme al Partito Democratico; a tali primarie il PD avrebbe dovuto presentarsi con un unico candidato, e cioè il Segretario.
Bersani (secondo me sbagliando, e spiegai anche il perché qui) decise, non senza opposizioni nel partito, di “cedere”: chiese all’Assemblea del PD di modificare lo Statuto per permettere di partecipare a qualunque iscritto del PD che riuscisse a raccogliere un certo numero di firme.
Ma a questo punto, a che servono le primarie aperte per il Segretario se poi tanto prima delle elezioni dobbiamo rifarle per il candidato premier? La mia personalissima risposta è: a nulla. Sono infatti convinto che arrivati a questo punto si debba far diventare “di diritto” una cosa che è già “di fatto”: la separazione tra Segreteria del partito e Premiership, e cambiare dunque le modalità di selezione dei due ruoli.
In particolare, mentre le primarie per la scelta del futuro leader della coalizione possono e devono rimanere aperte, con modalità simili alle ultime svolte nel centro-sinistra, per quanto riguarda la scelta del Segretario del PD si dovrebbe tornare ad una competizione “interna” tra gli iscritti del Partito.
Certo, per fare questo è necessaria una seria revisione delle modalità di tesseramento (ed in proposito, la proposta di TRed pare un buon punto di partenza) ed è chiaro che va azzerato il terribile correntismo. che rende inefficace ed impossibile una direzione politica unitaria del partito. È necessario, per parlarci chiaro, che si torni ad un confronto non sulle persone ma sulle idee: e questo si può fare solo con un confronto congressuale tra gli iscritti e sulle “mozioni congressuali” per permettere un approfondimento politico e programmatico (quando, l’abbiamo visto, in un confronto aperto a tutti i cittadini la competizione diventa necessariamente più generica e “comunicativa”, certo adatta a conquistare l’elettorato ma meno a guidare un partito).
Mi auguro dunque che il PD sfrutti al meglio il tempo che gli concede questo “limbo” in cui si trova. Bisogna trovare il coraggio di sfruttare come potenzialità questa situazione: un momento in cui non si ha un segretario ma si ha uno dei propri leader a capo del Governo. Sarebbe un peccato non trarre qualcosa di positivo da una situazione come questa.
Domenico Cerabona
@DomeCerabona