
Ogni anno il canone aumenta, ogni anno i mugugni si ripropongono: il prossimo gennaio saranno 113,50 euro, un rincaro risibile (1,50 €) ma poco popolare.
Se si analizza la tabella dei rincari (la trovate qui), gli atteggiamenti possono essere due: seccatura emotiva, per via dei circa quindici euro di rialzo in dieci anni, o una più razionale rassegnazione, se si tiene conto dell’incremento “ponderato”, ossia in rapporto al naturale tasso di inflazione.
Se si guarda il secondo dato, infatti, ci si rende conto che il crescere del costo è un fattore naturale, dovuto al generale progredire del costo della vita. Ciò detto, il canone resta una tassa malsopportata, soprattutto di fronte alla non sublime qualità dei programmi Rai.
Cosa dice la legge? La legge dice che il canone va pagato, e fin qui nulla di nuovo.
Non tutti sanno che non è una tassa: giuridicamente, una tassa è un pagamento effettuato da un soggetto in virtù di un corrispettivo. Il cittadino paga per avere un servizio pubblico da parte di un ente. Uno paga le tasse universitarie per accedere all’università, le tasse aeroportuali per viaggiare tramite un velivolo, le tasse su una licenza per godere di quella licenza.
“Ma io pago il canone Rai per vedere la Rai“, si obietta generalmente – frase cui altrettanto generalmente segue la famosa “Visto che io non guardo la Rai, non voglio pagare il canone“.
In realtà non è così: quella sul canone Rai è un’imposta, e nemmeno per “godere della trasmissione dei programmi”, ma per il semplice possesso di un apparecchio capace di ricevere le frequenze televisive o anche solo radiofoniche. Tanto è vero che l’ “ipotetico” evasore non smette di captare RadioRai o il Tg1.
Così parla la Corte di Cassazione a sezioni unite il 20 novembre 2007, sentenza 24010 (pagina 2 del Pdf): il “canone di abbonamento radiotelevisivo (…) non trova la sua ragione nell’esistenza di uno specifico rapporto contrattuale che leghi il contribuente, da un lato, e l’Ente – la Rai, appunto – che gestisce il servizio pubblico radiotelevisivo, ma si tratta di una prestazione tributaria, fondata sulla legge, non commisurata alla possibilità effettiva di usufruire del servizio de quo“.
A stabilirlo sono una serie di leggi e sentenze, a cominciare dal vetusto Regio Decreto 246 del 21 febbraio 1938, fin dall’articolo 1. Esso è in vigore ancora oggi, ed è stato confermato nella sentenza della Corte Costituzionale numero 535 del 12 maggio 1998 e in un’altra sentenza della Corte di Cassazione (n° 8549 del 3 maggio 1993).
Di qui non si scappa: se non si paga il canone si è degli evasori. La scusa “Io non ho una tv in casa” è abbastanza inconsistente: teoricamente, basta possedere un computer, uno smartphone o addirittura un semplice cellulare capace di far ascoltare la radio (questi ultimi due, pur non ancora certificati da leggi e sentenze, dovrebbero presto entrare a far parte della lista per interpretazione estensiva).
A meno che uno non scelga di vivere deliberatamente nel 1920, sono davvero poche le situazioni che consentono di svicolare furbescamente.
Tuttavia, disdire il canone è possibile, sempre seguendo passo passo il Regio Decreto del ’38: bisogna certificare di non possedere nessun apparecchio in casa (nessuno: niente tv, radio, pc, tablet ecc.), tramite una procedura piuttosto complicata (la descrive qui lo stesso sito internet della Rai).
Ovviamente, dichiarare il falso non mette al riparo da sanzioni.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi