I discorsi tetri, funerei circa lo status del pallone nostrano (notoriamente, la più importante delle cose meno importanti) li stavamo già facendo quattro anni orsono. Una eliminazione al primo turno può essere un accidente, due iniziano ad essere significative.
La nazionale si è trincerata dietro una finale al massacro nell’Europeo 2012 (ottenuta ai rigori contro un’Inghilterra scarsa e con una inspiegabile vittoria contro la Germania in semifinale) ed un terzo posto alla Confederations (sì, certo, ma terzi su otto, e pure qui ai rigori): in realtà il livello del nostro calcio è basso, bassissimo. Lo sappiamo, le disastrose campagne europee dei club italiani ce lo ricordano ogni anno.
Le soluzioni verranno snocciolate nei prossimi giorni, da gente più competente di noi. Quello che può essere utile è ripetere, per l’ennesima volta, l’elenco dei problemi principali – in modo da avere, se non altro, uno specchietto chiaro.
CAMPIONATO – Il livello del campionato è insufficiente, e non da tre anni (in cui si è concretizzato un inaspettato dominio-Juventus). È insufficiente dal 2006, anno in cui una catastrofe giudiziaria (sportiva e non solo) si è abbattuta sulla principale società e su tutta una serie di esponenti del “ceto medio” italiano. Per notorietà, diffusione del tifo e clamore dello scandalo le attenzioni sono sempre state dedicate maggiormente alla Juventus, ma le sentenze penalizzarono realtà importanti come Lazio e Fiorentina (la quale, ad esempio, per tre anni consecutivi conquistò un piazzamento Champions riuscendo a disputarla solo al terzo tentativo).
Anche il Milan avrebbe dovuto subire un contraccolpo, ma beneficiò di una enigmatica carta di accesso per la Champions 06/07 – che per uno strano caso della vita addirittura vinse, trascinata dall’annata di gloria di un buon giocatore (Kaká).
Prescindere da quell’azzeramento significa precludersi un’analisi seria (il tutto senza entrare nel merito di quel grandioso vespaio che fu Calciopoli). Ed altrettanto semplicistico sarebbe trincerarsi dietro la straordinaria cavalcata dell’Inter di Mourinho, troppo forte per il nulla italiano e semplicemente perfetta nelle tuttosommato poche partite che compongono ogni Champions League. All’istrione di Setubal girò tutto giusto, e i nerazzurri furono bravissimi a capitalizzare ogni goccia del loro sudore.
Dalla stagione 2007/2008, in ogni caso, il campionato è stato a senso unico: dominio Inter per i primi anni, scudetto di Ibrahimovic (non “del Milan”, ma “di Ibrahimovic”. E toh, Thiago Silva) come intermezzo, scudetto buttato dal Milan e raccolto dalla Juventus, dominio Juventus.
Nel frattempo una crisi patrimoniale di due delle tre grandissime del calcio nostrano (il Milan ferito dal Lodo Mondadori del suo presidente, che si trovò dall’oggi al domani a dover scucire più di mezzo miliardo di euro nelle casse di De Benedetti; l’Inter provata dai decenni di spese importanti della famiglia Moratti – almeno, le cronache ci han portato a conoscenza solo quelle e non, per dirne una, ipotetiche riorganizzazioni degli asset della famiglia) si è unita alla mancata emersione di realtà nuove (Lazio e Fiorentina, dicevamo prima) ed un processo di crescita fisiologicamente lenta di competitors di rilievo come Roma e Napoli.
Capitolini e partenopei sono destinate a stabilizzarsi ad un livello alto, forse addirittura prendendo il posto delle milanesi (in virtù di ottime politiche finanziarie interne, intraprese seguendo filosofie diverse: talent scouting i giallorossi, attenzione ai bilanci gli azzurri).
Fatto sta che in questi anni il calcio italiano sta provando a reinventarsi: per la prima volta da sempre non può declinarsi come “uno e trino” sull’onda dell’asse Torino-Milano, e bisogna capire se, come e in quanto tempo riuscirà a sopperire all’assenza delle milanesi.
La conseguenza di tutto ciò è stata la qualificazione nelle Coppe Europee di realtà inadeguate: squadre come Chievo, Sampdoria e Udinese hanno sentito le note di Handel in Europa, mentre Lazio, Palermo e le riserve di Napoli e Fiorentina si son dovute districare in Europa League. Questo ha significato perdita di posizioni nel ranking e meno appeal per il prodotto calcio all’estero.
Ma perché squadre come Shaktar e Swansea nella vecchia Coppa UEFA fanno strada e le nostre compagini raramente scavalcano i sedicesimi?
Certo, snobismo e mentalità; ma anche mancanza di un elemento fondamentale: i soldi per allestire squadre competitive.
SOLDI – Il Cardiff City, fanalino di coda della Premier League, lo scorso anno ha incassato di soli diritti tv la cifra di 75 milioni di euro; la Juventus campione d’Italia ne ha intascati meno di 100 (fonte: Marco Belinazzo, Il Sole 24 Ore). Sta in queste cifre il clamoroso ritardo del sistema-Italia.
Gli appassionati di business pallonaro sapranno che sulla questione diritti tv proprio in questi giorni si sta combattendo una battaglia feroce tra Sky e Mediaset. Il tutto vede come controparte la Lega Serie A (ossia una associazione di diritto privato interna, ma parallela, alla Federazione) che si è affidata ad un colosso internazionale come Infront per scucire il massimo esigibile dalle emittenti televisive.
Già, la Lega: è presieduta a tempo perso da Maurizio Beretta, il quale è un manager di Unicredit paracadutato per motivi complicati al vertice della “sottofederazione”.
Beretta (foto) è un ex giornalista, diventato poi alto dirigente Rai: è quindi transitato attraverso incarichi dirigenziali in una buona manciata delle massime istituzioni aziendali italiane.
Sicuramente bravissimo, esperto, scafato: mantiene tuttavia, come da pessima prassi di tutto il sistema-paese Italia, questo doppio ruolo all’interno sia della Lega che di Unicredit – circostanza che non favorisce certo la totale concentrazione su almeno uno dei due incarichi.
È inoltre un corpo estraneo alla Lega stessa, composta da ricchissimi proprietari ben poco abituati a mediare circa i propri interessi pecuniari e per nulla disposti a farsi comandare da uno che non è “uno di loro“.
Questa gestione acefala della massima associazione del calcio italiano ha prodotto una sottodivisione in due grandi correnti di presidenti di calcio: da una parte Juventus, Inter, Roma (anche se questo trittico fa sorridere, ad immaginarselo come concreta alleanza), dall’altra Milan, Lazio ed altre franchigie.
I diritti televisivi sono solo la punta dell’iceberg: da una commerciabilità televisiva del prodotto dipendono sostanzialmente tutte le altre entrate, a cominciare dalla monetizzazione degli sponsor tecnici e dei partner economici delle varie società. Banalizzando, una grossa multinazionale ha interesse a mettere il proprio logo su una maglia della serie A se questo logo viene visualizzato non solo dai trascurabili tifosi italiani, ma anche dagli appassionati asiatici e sudamericani.
Una gestione minimale dei diritti televisivi, così come è stata fino ad oggi, si ripercuote su tutto l’indotto. Fa sorridere, ad esempio, che la Lega abbia volutamente fissato ad una cifra esorbitante (108 milioni) i diritti per la trasmissione delle partite via Internet, in modo da far andare l’asta deserta (e riuscendo nell’intento).
Questi pochi cenni bastano per far capire l’inadeguatezza degli organi di gestione, schiavi di visioni ormai superate e preda dei ricatti delle tifoserie: ogni volta che sentite qualche vecchio abbonato degli stadi protestare per le partite alle 13:00, sappiate che vi trovate di fronte ad una mentalità conservatrice e antieconomica.
Il calcio spezzatino, le partite ad ore insolite e la sottomissione ai diktat delle tv non sono un vezzo, ma una necessità per massimizzare il valore economico del proprio prodotto.
Il rinnovamento della Lega, se si vuole davvero far ripartire il prodotto calcio, deve essere radicale: ci si dovrà ispirare non solo alla ormai mitologica Premier League, ma anche a sistemi se possibile ancora più spregiudicati e commerciali come l’NBA o la Formula Uno di Bernie Ecclestone.
I modelli non sono certo il trionfo della frugalità e degli antichi valori, ma la scelta è tra un futuro da pescecani o un eterno presente da sardine localiste. E questo rinnovamento, giocoforza, deve passare attraverso una riorganizzazione della federazione.
FEDERAZIONE – Per farvi capire il livello dello sport italiano, pensate a Franco Frattini. “Ma che c’entra?“, potrebbero chiedersi sdegnati i più ingenui. Anime candide! Il suddetto ex ministro degli esteri, troppo impegnato ad allenarsi con il suo bel sorriso per imbroccarne anche solo una durante il suo sfolgorante mandato (roba che pure la legge dei grandi numeri ha dovuto rassegnarsi), non si è ritirato a vita privata dopo il tracollo del governo Berlusconi.
Prima è stato dirottato a presiedere una delle sezioni del Consiglio di Stato (e già qui…), poi è stato piazzato come componente dell’Alta Corte di Giustizia Sportiva del CONI, ossia il massimo organo giurisdizionale di ultima istanza dell’ordinamento sportivo italiano.
Questo per far capire come è considerato, “l’ordinamento sportivo italiano“: grandissimo serbatoio di poltrone dove parcheggiare quelli che in altra maniera non si riesce a far fuori.
Trattare dei mali del CONI richiede un saggio in 14 volumi, ed in generale resta un rompicapo per solutori più che abili.
Per dare un’idea della situazione, comunque, possono bastare un paio di istantanee legate sempre al 2006 (che, se lo mettano in testa anche i negazionisti più spregiudicati, resta il punto più basso toccato dal calcio italiano sin dalla fondazione del Genoa nel 1893).
Quello che ieri sera abbiamo salutato come autore di un “beau geste”, il dimissionario irrevocabile Giancarlo Abete, era già vicepresidente della federazione nel 2006: il suo presidente era invece Franco Carraro, che bontà sua durante lo scandalo decise di dimettersi.
Quello che sconvolge è la normalità con cui faccende del genere vengono gestite: se in una istituzione statale si comprova, in più gradi di giudizio e in più sedi (sportive, civili e penali), che il normale andamento è stato condizionato da un gigantesco giro di corruzione ed irregolarità, logica vorrebbe che la carriera di tutti i vertici venisse semplicemente azzerata.
Non è voglia di forca, è semplice decoro.
Abete invece venne ricompensato con l’elezione a presidente di quella stessa federazione, mentre il prode Carraro, dopo qualche anno in cui decise saggiamente di cambiare aria (mantenendo tuttavia il suo ruolo presso la Uefa), nel 2009 divenne (stra-or-di-na-rio!) addirittura presidente della (davvero, non ci si può credere) “Fondazione Onesti Accademia Nazionale Olimpica“, e nel 2011 presidente della Federazione Italiana Sport Invernali (sic).
Ecco: in casi del genere è dura non sprofondare nel più astioso e vendicativo qualunquismo; ma forse avere le idee chiare su cosa è stato fatto serve per costruirsi un orizzonte preciso su tutto quello che non bisognerà fare in futuro. Almeno circa la gestione di questa branca del CONI (incluso un riassetto della giustizia sportiva, caduta definitivamente nel ridicolo con la gestione del recente calcioscommesse).
Se Matteo Renzi, tra un tentativo di salvare il mondo e l’altro, riuscisse a dare un giro di vite poderoso alla faccenda, non sarebbe male.
TALENTI – Tornando a occuparci più di sport e meno di politica, basta riportare le dichiarazioni di Pablito Rossi al termine della gara contro il Costa Rica: “Gianluca [Vialli, NdR], se ci fossimo trovati io e te una difesa che giocava così alta ci saremmo divertiti come dei matti“.
Questa nazionale era scarsa, rassegniamoci. E non perché Prandelli avesse lasciato a casa un Cruyff più un Van Basten più un George Best più un Beppe Bergomi. Perché questo è quello che passa il convento.
- Il nostro centravanti titolare ha segnato 18 gol in 40 partite nella propria squadra di club, che detto per inciso ha vissuto una stagione da incubo; in compenso, si è beccato nove ammonizioni e una espulsione.
- La sua riserva aveva totalizzato, fino a questo appuntamento, numero 0 presenze internazionali.
- La nostra stella aveva 35 anni.
- Il centrocampista destinato agli inserimenti ha vissuto una stagione da panchinaro.
- Nessuno in rosa dava garanzie di estro, fantasia o almeno potenza muscolare sufficienti per saltare l’uomo tre volte su cinque.
E potremmo continuare per almeno una dozzina di altri punti.
È la diretta conseguenza del punto numero 1: un campionato scadente, anche nelle sue eccellenze, produce una élite scadente.
Paradossalmente, la colpa del calcio italiano è aver vinto poco quando su sei edizioni del Campionato Europeo Under 21 ne vincemmo cinque ed arrivammo terzi in una occasione (1992-2004). Il vero fallimento è consegnare agli albi d’oro un solo Mondiale e nessun Europeo nonostante per 15 anni siano stati “prodotti” giocatori come Albertini, Baresi, Baggio, Zola, Mancini, Totti, Del Piero, Nesta, Pirlo, Vialli, Donadoni, Vieri (e ci fermiamo per carità cristiana).
I migliori di oggi non valgono le riserve di ieri. Questo per colpa di un campionato di basso livello in cui non si vogliono trovare le risorse per acquistare grandi giocatori dall’estero in modo da alzare il livello medio.
Uno stopper del Brescia del 1998 si trovava a fronteggiare nello stesso campionato gente come Ronaldo, Del Piero, Totti, Batistuta, Baggio, Chiesa, Signori eccetera.
Pensare che un Bonucci possa migliorare tecnicamente affrontando Belfodil, Immobile o Amauri a fine carriera significa commettere un errore di prospettiva. Questo vale per tutti i ruoli.
GIOVANILI – Se per caso vi è capitato di osservare qualche gara del campionato Primavera o addirittura del campionato Allievi Nazionali, vi saranno chiare molte cose (nella foto sopra, un giovane Immobile nella Primavera bianconera).
Sinceramente, non ho idea di come lavorassero negli anni ’90; ho visto però come lavorano oggi: per motivi di budget (il banale costo di trasferte effettivamente nazionali) i gironi delle selezioni giovanili delle squadre professioniste sono limitati per area geografica.
Questo significa che per comporre gironi con un numero significativo di squadre si concede l’accesso a vivai di formazioni (di fatto) semiprofessionistiche. Spesso il divario tra la Primavera di una squadra di serie A e quello di una squadra di serie C non è così marcato, ma sicuramente si produce un livellamento verso il basso di tutti i partecipanti al campionato (per lo stesso discorso di cui sopra: migliori se affronti gente più forte di te, non se incontri gente del tuo livello).
Inoltre la conformazione dei campionati giovanili scimmiotta in maniera ridicola il professionismo vero e proprio: ci sono allenatori che saltano, vi è una esasperazione della tattica, lo 0-0 è considerato non solo un risultato fisiologico ma anche, talvolta, gratificante.
In altre parole, si insegna a vincere ad un livello basso, senza preoccuparsi di formare atleti competitivi per un livello successivo.
Infine, la corsa ai talentini in erba massacra la produzione nazionale: un po’ per esotismo, un po’ per ragioni economiche (iscrivere plusvalenze a bilancio) ogni anno vengono innestati in ogni rosa delle squadre giovanili dai sei ai dodici ragazzini comperati in giro per il mondo.
È il rovescio della medaglia del modello-Udinese: tutti pregano di intercettare nel grande numero due-tre buoni giocatori per annata, ma questa è una chimera. Soprattutto, è una gestione fallimentare se viene attuata da squadre di grande blasone.
I numeri sono lì a testimoniarlo: ogni squadra professionistica ha una Primavera, tra effettivi ed aggregati, superiore ai 25 elementi. Quanti ne esordiscono in prima squadra ogni anno? E credete che questo sia dovuto a un’ingiustizia oppure al fatto che effettivamente i “prodotti del vivaio” sono troppo poco competitivi per misurarsi con la Serie A?
STADI – Per chiudere questo lungo cahier de doléances, affrontiamo il discorso stadi. Essi sono sia una fonte di ricavo immediato per le società, sia una strada per rendere il proprio prodotto più spendibile ed appetibile.
Sappiamo che i nostri stadi sono brutti, cadenti, disastrati. Sappiamo anche che sono preda di gruppi di criminalità organizzata – che solo pochi coraggiosi non camuffano dietro l’appellativo neutro di “ultras”.
Le linee guida per affrontare in maniera seria e organica il problema strutturale del calcio italiano sono poche ma molto complicate. Proviamo ad elencarli sinteticamente, cercando di spiegare le difficoltà di attuazione.
- Scioglimento coatto dei gruppi ultras: è una mossa coraggiosa, molto dura e impopolare. Non è nemmeno “giusta” nell’accezione primordiale del termine, poiché – se è vero che vi sono degenerazioni intollerabili del fenomeno – è altrettanto vero che gruppi di tifoseria organizzata sono dei centri di aggregazione sociale, capaci anche di opere solidali non banali e di sana canalizzazione della passione sportiva.
I gruppi ultras sanno essere belli, coinvolgenti, coreografici, goliardici. Purtroppo però bisogna arginare definitivamente il problema, ed anche in questo caso vale l’adagio del “per colpa di qualcuno non si fa credito a nessuno“.
Il problema di una mossa del genere è la inquietante commistione di interessi: non solo tra le società ed i gruppi più violenti di tifosi, in un sordido interscambio di favori e aggiustamenti di comodo da cui è difficile uscire; ma anche tra la politica e questi stessi gruppi di influenza. Ricordiamoci sempre che Barbara Polverini, prima di farsi eleggere governatrice del Lazio, dovette recarsi presso la curva Nord dello stadio olimpico di Roma per imbonire la tifoseria biancoceleste.
Nessuno sa se in occasioni come quella siano stati tacitamente o esplicitamente tessuti accordi di protezione e clientela, e dunque è scorretto affermarlo; ma certo è difficile credere che rappresentanti delle istituzioni tanto sensibili al “dialogo” con quel mondo (che spesso è coinvolto in giri di spaccio di droga, contraffazione di materiale, detenzione di armi proprie ed improprie: in tre parole, associazioni a delinquere) abbiano poi la forza di imporre e far rispettare regole ferree. - Emanazione di una nuova legge sugli stadi. Anche se questo dovesse voler dire fondi pubblici dati ai privati.
È pure questo un atto impopolare, soprattutto se dovessero esserci elargizioni di denaro pubblico. Quello che sfugge sempre in questo caso è la concezione del calcio italiano come industria, e non solo come passatempo.
Gli stipendi, i biglietti, i trasferimenti, in generale gli utili del mondo del calcio non finiscono soltanto nelle tasche dei multimiliardari che vi investono, ma diventano anche stipendi per i dipendenti diretti o collaterali delle infrastrutture e tasse incamerate dallo Stato.
Perfino la concessione di territori edificabili nelle pertinenze degli stadi può essere un fattore positivo, se gestita secondo concezioni di Smart City e in generale evitando le colate di cemento dei palazzinari. - Abolizione della tessera del tifoso, in quanto orpello burocratico inutile che danneggia l’utenza sana e non incide sull’utenza dannosa.
La tessera venne introdotta per imitare alla bell’e meglio le fidelity card del calcio inglese.
Da questo punto di vista il modello britannico non è applicabile: uno dei cardini del Rapporto Taylor voluto da Margaret Thatcher è una politica del prezzo sui biglietti dello stadio. Il ragionamento – invero, decisamente classista – del Rapporto Taylor fu il seguente: se sei povero, sei ignorante; se sei ignorante, se violento; se alzo i prezzi dei biglietti, la lower class non se li potrà più permettere e dunque risolveremo il problema alla radice.
C’è da dire che il tutto nel Regno di Sua Maestà ha funzionato, ma questo discorso in Italia semplicemente non può reggere: i prezzi medi dei biglietti sono considerevolmente più alti rispetto al resto d’Europa, eppure il problema da noi è se possibile più grave. - Conferimento alle società di diritto/dovere di monitoraggio e selezione del pubblico presso gli impianti di proprietà.
Ecco a cosa serve avere stadi di proprietà per le varie società: a renderle direttamente responsabili dei comportamenti del pubblico, anche configurando una responsabilità amministrativa/penale delle società calcistiche sulla falsariga della legge 231/2001 circa la responsabilità penale degli enti.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi