Quasi in sordina, è morto un diciottenne: scalzata dal balletto insipido del Quirinale, a contorno di conteggi e contagi della pandemia, la prima vittima dell’alternanza scuola-lavoro è passata sostanzialmente in silenzio, senza destare lo scandalo che avrebbe meritato.
I giornali web l’hanno relegata nella colonna destra infame, tra un’anticipazione di Masterchef e le curve di una influencer dimenticabile; giusto qualche servizio in televisione prima di passare oltre: era in una industria metalmeccanica, gli è crollata una putrella addosso, sfortuna.
Si è registrato il timido, abbozzato, risibile cordoglio del Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, il quale se l’è cavata definendo “inaccettabile” l’accaduto e tornando rapidamente nell’oblio. Quanta veemenza; il resto del mondo politico e istituzionale invece aveva di meglio da fare.
Sfortuna: e del resto, è perfettamente normale considerarla così, in uno scenario di 1.404 decessi (circa 3,8 al giorno) nel 2021 e un 2022 in perfetta media, con 60 morti al 24 gennaio 2022 (qui il conteggio, con nomi e cognomi); il primo studente morto sul lavoro era questione di tempo.
I liceali subiscono questo abominio (ovvero, l’essere trasformati in forza lavoro gratuita, scandalo nello scandalo) in virtù della “Buona Scuola”, epiteto oggi vagamente ributtante di una riforma varata nel 2015 dal Governo Renzi.
La passerella tra il mondo scolastico e il mondo del lavoro (un lavoro purchessia: ma non apro questo vaso di Pandora) doveva essere una entrée, un assaggio, una brillante idea per facilitare una formazione più “pratica”, più pronta alle richieste del settore.
La “Buona Scuola” è quella che ha ammazzato Lorenzo Parelli, 18enne di Udine, e che ha ferito o reso invalidi a vita almeno altri sei ragazzi.
Le storture di questa realtà non si misurano coi soli resoconti dell’Inail: intellettuali come Alessandro Barbero hanno sollevato il controsenso del restituire braccia all’agricoltura (e all’industria) ancora in età scolare. Qualcuno ci ha visto – non a torto – un po’ di malsano paternalismo, grande classico della paideutica tricolore: “se non hai voglia di studiare, vai a lavorare”. Con bei risultati, s’è visto.
Senza giri di parole: a 18 anni appunto si dovrebbe studiare, non lavorare. E soprattutto, non si dovrebbe mai lavorare gratis. Perché è a questo che costringe la scuola, oggi: a lavorare gratis. Uno sfruttamento, come sottolinea questo articolo di Fanpage.
Un subliminale irricevibile, l’equazione secondo cui per imparare a lavorare è accettabile un tirocinio gratuito, in cui nessuno investe nella formazione (né dello studente, né del lavoratore): l’azienda non paga il dipendente, lo Stato non paga lo studente, difficilmente lo studente verrà assunto dalla stessa azienda in cui ha prestato (gratuitamente) la sua opera.
Ogni tanto, uno ne muore o ne resta ferito. Ministro Bianchi, tutto bene? Sicuro di non aver nulla da aggiungere?
La scuola “borghese e gentiliana” (cit.) ha poi in nuce una ulteriore stortura: chi fa i licei, esegue l’ “alternanza” (che fastidio, questo nome) in mansioni impiegatizie; chi frequenta gli istituti tecnici o agrari, beh, dove vuoi che finisca? Ma in fabbrica o nei campi, ovvio! A corollario, gli studenti dei licei fanno 200 ore di scuola-lavoro e gli studenti non liceali il doppio: 400 (Fanpage).
Tutto è delegato al buon cuore e al rispetto delle norme dei titolari di azienda, i quali spesso – sottovoce – confessano che come minimo è di intralcio avere tra i piedi dei 18enni cooptati (e quindi non formati, né interessati, né motivati: e come potrebbero, del resto?); altri, se ne impipano e li mettono a fare qualcosa. Se qualcuno muore, o resta ferito, son cose che capitano.
Back to basic, per dirla in aziendalese: la scuola serve a formare, e formare significa dare gli strumenti per una lettura del mondo. Anche più concreta di quella fornita oggigiorno, per carità: ma lo studio e il lavoro in apprendistato, o financo nei mefitici stage, o in tirocinio, o nel praticantato obbligatorio per le libere professioni – altro retaggio medievale di quando “si andava a bottega” – sono situazioni maledettamente diverse. Per età, maturità, consapevolezza dei diritti (sempre più tragicamente scarsa).
Le aziende non hanno bisogno di questo genere di lavoratori sottoskillati; i ragazzi non hanno bisogno di questo viscido, vergognoso battesimo del fuoco coatto. Dove ogni tanto, per dinci, qualcuno muore o resta ferito.
Tanto le aziende quanto gli studenti hanno bisogno di una formazione aggiornata, contemporanea, riformata: capire il perché delle cose, fornire gli abbozzi per esplorare una quotidianità molto più complessa di 30 anni fa e totalmente aliena dal 1923, anno in cui la famosa Riforma Gentile (su cui grossomodo ancora si basa la scuola italiana) fu concepita.
Un secolo dopo, la scuola non è ancora né più adatta a formare cittadini e lavoratori; in compenso, li manda a morire o ferirsi.
C’è dietro quello spettro tanto chiaro a chi vive i nostri tempi, quello della produttività, dell’impiegabilità, del “saper fare” prima ancora del “sapere”, della crescita. Una crescita in vece della quale si accetta tutto: si accetta di lavorare durante una epidemia mentre ogni altro diritto viene compresso, si accetta di entrare nel mondo del lavoro da sfruttati e rimanerci da sottopagati, si accetta il dividi et impera che nega qualsiasi forma di associazionismo (con la tacita, ignorante, imbelle, anacronistica e colpevole assenza dei sindacati), si accetta la dissoluzione del concetto di straordinario, si accetta l’ignoranza e l’incompetenza della forza lavoro sostituibile, si accetta un modo di lavorare non sicuro, tanto che da 14 anni il trend delle “morti bianche” (altro disgustoso eufemismo) è invariato.
Da sabato, beffardamente ultimo giorno di “alternanza” (non chiamatela stage: lo stage è pagato, seppure una miseria), morire per crescere ha una sfumatura in più. Il ragazzo era lì per “crescere” come persona, per fare “un’esperienza di vita”, come ha chiosato il sempre ineffabile Bianchi, e ora capisco perché si è tacitato dopo l’unica dichiarazione: sarà stato un rigurgito di buon gusto.
Ci sono evidenti responsabilità politiche, e tacita e correa ignavia, in tutti gli esponenti di governo e opposizione che in 7 anni non hanno nemmeno provato a smontare quella porcata: quando il ragazzo di Pavia di Udine aveva 11 anni, qualcuno aveva già disegnato il modo in cui sarebbe morto, e di ciò sarebbe il caso di rispondere. Alla politica o alla giustizia, già che sulla coscienza non si nutrono più grandi speranze.
Umberto Mangiardi