Mordayn – Racconto onirico sulle orme di Lovecraft


kadath_by_theGorer[vagamente ispirato a “Il Loto Nero” di H.P. Lovecraft]

Stinto e pallido, freddo, distante e debole il sole sorgeva pigramente oltre una sottile coltre di nebbia, sorridendo alla brina tenace di un inverno troppo rigido; il grande porto di Drariesta fremeva, pulsava di attività, tra pescherecci di ritorno da una notte gelida e fruttuosa, e grandi caravelle mercantili che issavano le vele preparandosi alla partenza.

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Odore di salsedine e di pesce, di whisky scadente si mescolavano al profumo frizzante dell’alba; la marea e il vento promettevano avventure: lontano dai continenti occidentali, lontano dalle strette e fredde vie dei porti del nord. Oltre l’oceano, verso i paradisi incantati dei deserti di Sandlia, dove soffice come seta la sabbia agitata dallo scirocco lucida l’alabastro delle mille colonne di templi dedicati a divinità pagane e antiche.

O verso i grandi altopiani freddi del continente all’estremo est, dove, sotto i cieli infuriati dalle tempeste, culture millenarie sussurrano e bisbigliano, complottano e si agitano, come piovre i cui tentacoli continuano a crescere.

E ancora oltre, nell’infinito oceano di Mu, dove navigando per un anno e un giorno si giunge al luogo più distante da ogni terra emersa conosciuta: là dove, secondo le leggende, si nasconde il continente nascosto.

Un luogo incantato di bellezza ultraterrena, abitato da elfi e da creature cosmiche, rispetto alle cui vite noi non siamo altro che polvere, agitata per breve tempo da un alito di vento che chiamiamo vita.

Perché era lì che era diretto il galeone dalle vele color porpora, che spiegava le vele verso il sole proprio in quei minuti mattutini, fuggendo per sempre dal morbido e avvolgente calore e odore dei forni appena riempiti dai panettieri, rincorrendo utopie e visioni oniriche del trio di capitani, resi folli dall’ossessione di quella impresa: lupi di mare prestati alla ricerca di ciò che è proibito ai mortali, il continente nascosto delle terre incantate, dove l’ambrosia scorre nelle vene e negli occhi dei nativi, e dove l’estasi di un istante raggiunge il suo mirabile accordo con la consapevolezza dell’immortalità. Ma non la bellezza, non la gioia e non la curiosità agitavano i muscoli di quei marinai: ma una fame nera, più insaziabile di quella dello stomaco, più atroce di quella dei polmoni per l’aria. La fame di menti insoddisfatte di un mondo, e desiderose di sperimentarne altri: oltre lo spazio, prima e dopo il tempo.

Una volta giunti in quel luogo dai mille colori, che turbinano in un’aurora boreale di inferni perduti e di paradisi incompiuti, avrebbero cercato la valle oscura abitata da corvi silenziosi, affamati di anime da trasportare in altre dimensioni, e l’avrebbero risalita fino alla sorgente del fiume Rahin, là dove una cascata leviga le pareti fatte di cristallo di una grotta dalla strana luce spettrale. Poi dentro quest’ultima, fino ad uno stretto budello, da percorrere verso il basso, per giungere infine in una piccola valle circolare, caldera spenta di un vulcano morto, ma ancora percorso da vene di calore come gli ultimi spasimi nervosi di un corpo già abbandonato dal soffio vitale: in questo luogo di vegetali assassini e fiori seducenti, nel punto che la luce del sole non arriva mai ad illuminare, cresce il piccolo arbusto dalle foglie color turchese, il Mordayn.

Il Mordayn, splendido e terribile, così dolce all’odore da indurre l’abbandono a ogni altra sensazione: nemesi e antitesi del fior di loto dai petali candidi, che presso le culture di Sandlia simboleggia la splendida rinascita; così velenoso e potente che il solo sfiorarne i petali con la lingua porta ad uno stato di sonno, che presto diventa coma, per poi mutarsi in morte dolce come miele. Un arbusto il cui seme è giunto da dimensioni ultraterrene, dove gli dèi stessi, stanchi della realtà, assaporano le illusioni della droga e con essa sognano, e nel sogno creano nuovi mondi e danno la vita a nuove creature.

Tre sono i petali del fiore di Mordayn, più neri di una notte senza stelle, o dell’anima di un demone: neri come l’essenza oscura del Demone-Dio, che oltre gli spazi siderali divora la luce delle stelle consumando lentamente l’universo. Tre come i coraggiosi, avventati, pazzi, incoscienti capitani che guidavano la loro nave alla ricerca della stupefazione proibita, cercando di scagliare la loro mente oltre il confine stabilito, che qualcuno ha tracciato ai bordi dell’infinito.

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Molte peripezie accaddero ai capitani e ai marinai di quella nave, grandi imprese ebbero luogo, e ancora altre ed altre avventure. Morirono uomini, ed altri uomini abbandonarono l’impresa, comprendendo quale insensata ricerca stesse conducendo quella nave maledetta: ma per ogni uomo perso un nuovo marinaio venne reclutato. Nei porti di Argoth, e di Tortlyon, tra i bazar  del califfato di Abderal e nella grande biblioteca di Nuova Naratyr, la città dove i morti risorgono a nuove forme di terribile non-vita, animati dal mormorio di un diavolo che piange sul fondo di un lago, salato a causa delle sue lacrime.

Infine, dopo aver solcato i fiumi e i mari del mondo conosciuto, dopo aver conosciuto razze e culture talmente altre ed aliene da sembrare oltre-umane a quegli uomini dell’occidente, l’immensa nave entro nel grande oceano di Mu, trionfante come una goccia d’acqua che cade su una grande distesa sabbiosa: così piccola, eppure così incredibilmente nuova e diversa dai fini granelli che la circondano. Per un anno e un giorno il vento sospinse le violacee vele là dove nessuno era mai giunto prima, per un anno e un giorno onde e tempeste fecero a gara coi venti nel portare la nave fuori rotta, nel danneggiarla, nel ferirla e nello sfiancarla, come si fa con una bestia feroce intrappolata in mezzo ad un’arena gladiatoria, finché esausta non crolla tra gli applausi scroscianti del pubblico assetato di sangue. Ma impavidi e risoluti erano i tre capitani, e l’audacia e l’astuzia furono le armi con cui condussero la guerra di logoramento contro la natura: infine, il legno d’acero della chiglia giunse a solcare le madreperlacee acque che circondavano il continente incantato. Strani e terribili erano i disegni delle costellazioni in quel cielo misterioso, e sottile e insidiosa una nebbia proveniente da terra, lesta circondò il veliero, ma ormai la destinazione era stata raggiunta.

Già uomini ansiosi di baciare la sabbia gettavano l’ancora; già piedi stanchi di muoversi sopra rollii e beccheggi saltavano a bordo delle scialuppe che approcciavano la costa, spinte dalle vogate di braccia ansiose.

Ma più del lungo digiuno di un suolo stabile sotto i piedi, potè la fame dei tre capitani per il fiore del peccato supremo: l’ansia dell’infrangere il divieto che separa l’uomo dall’universo, con l’approssimarsi della meta, mordeva e bruciava dentro i condottieri della più grande impresa mai riuscita ad alcun essere umano.

Silenziosi, invisibili, veloci e astuti, gli antichi elfi osservarono con preoccupazione quegli uomini marciare verso l’entroterra, verso la valle delle meraviglie; ma non intervennero: le frecce intrise di veleno di serpente corallo rimasero nelle faretre, e l’aria non si riempì del ronzio di corde di archi di avorio che rilasciano, tutte simultaneamente, i mille aghi di un’orgia di morte. Le antiche creature osservarono e lasciarono passare, comprendendo che quegli uomini, nel volgere di pochi lustri, non sarebbero stati altro che impalpabili mucchi di polvere, agitati e mescolati ai pollini dal vento. E simili creature, dalla vita tanto breve, non meritavano la considerazione che persino il dare la morte implica, non dai figli legittimi e riconosciuti delle nebulose galattiche e delle stelle pulsanti nel cuore del cosmo.

E negli occhi degli uomini si alternarono foreste e deserti, valli fiorite e montagne ghiacciate, paludi mortifere e sature di fetidi miasmi pestilenziali, e dolci declivi collinari: solo in lontananza videro le luci delle città degli immortali, che iniziano in questa dimensione, e si estendono su chissà quanti altri piani di esistenza, ma non osarono avvicinarvisi. Persino chi non teme l’elevata probabilità di una morte atroce desiste di fronte alla matematica certezza di essa, ed era certo come il respiro (giacché anche il sorgere del sole, in quel remoto, inconsueto angolo di pianeta, non sembrava più così costante) che chi si fosse avvicinato ai regni della prole cosmica degli dei antichi, avrebbe lasciato indietro il suo corpo per tuffare la sua anima nel vortice di oblio su cui regna la nera signora armata di falce.

Trovarono dunque, quegli intrepidi marinai, la valle nebbiosa, animata dal frullare del volo dei corvi silenti, neri psicopompi dagli occhi rossi, le cui ali battono l’aria di questo mondo e il vuoto degli abissi oltre il confine della vita. Risalirono la valle, e passarono sotto la cascata, innaturalmente fredda eppure così avvolgente, attraversarono la grotta, e percorsero il budello, per giungere infine nello strano, semisferico avvallamento, dove l’oggetto della loro ricerca, il motore immobile di tanta audacia, attendeva beffardo e malvagio.

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Il Mordayn, dall’odore assassino degli altri sensi e dal tocco mortale, cresceva non più alto di alcuni palmi da terra, e il suo fiore guardava l’orizzonte nel punto più lontano dalla luce del cielo: bello come solo i tuoni e i fulmini, che popolano il diluvio quando nubi nere muovono guerra al mondo sotto di loro, possono essere.

Tre erano i petali, tre i comandanti dell’ardita spedizione. Non col tocco, né con la lingua, andava assunta la sostanza che portava la consapevolezza di ciò che è oltre l’essere: il petalo e il succo non avrebbero dato altro effetto che la morte a chi ne avesse imprudentemente tentato l’ingestione. Occorreva essiccarne i petali e farne un infusione in acqua bollente, per poi inalarne i vapori: solo così il più debole e bistrattato dei cinque sensi avrebbe aperto l’universo agli altri quattro.

Il primo petalo, riporta il passato.

Il primo dei tre folli cercatori si fece avanti e infuse il suo petalo nell’acqua.

Anni fa conobbi una donna, e l’amai e lei mi amò. Il tempo e il cuore di un uomo la strapparono ai miei sensi e ai miei sentimenti. Questa divina spezia, me la restituisca“.

Pronunciate che ebbe queste parole, espose le sue narici all’odore mistico che si librava in contorte spirali e arzigogolate volute da quel liquido ultraterreno: ed il suo corpo cadde privo di sensi, mentre la sua anima tornava a ripercorrere i dolci momenti e le magiche sensazioni prodotti da quel sentimento che, solo e senza aiuto alcuno, eleva i mortali molto oltre gli dei.

Tornò a vibrare di quell’amore talmente intenso da non trovare espressione con le parole né con gli sguardi, che prende gli amanti quando, nella disperazione di non poter esprimere tanta felicità, non possono fare altro che stringersi, e stringersi sempre di più, e violare l’uno le labbra dell’altro finché il bacio, nella foga di tale gioiosa follia, non giunge a sfiorare la soglia del dolore.

Il secondo petalo, mostra il futuro.

Fu dunque il turno del secondo capitano di preparare la bevanda che lo avrebbe condotto dove il suo desiderio voleva, ma il suo corpo e la sua mente non potevano, andare.

Sempre il tarlo della morte mi ha tormentato. Sempre il cancro a forma di punto interrogativo mi ha divorato, alla ricerca di risposte alla domanda di tutte le domande, su cosa segua questa tappa corporea nel percorso universale della nostra anima. Nella droga cerco la risposta“.

E anche per lui la frase fu il preludio all’inspirazione del magico effluvio, dall’odore di miele e cannella, che lo librò oltre i confini della sua esistenza, mostrandogli il mosaico dell’universo atomo dopo atomo.

Vide le infinite, eppure auto-contenute, dimensioni del cosmo, e vide come le anime trasmigrano negli atomi che componevano i corpi che le ospitavano, assistette al ricombinarsi di questi ultimi in molte, e incredibili forme di vita. Apprese che l’autocoscienza era comune tanto agli umani quanto alle stelle e alle galassie: e nello spaventoso, immenso ciclo della vita del Tutto, fissando il nulla, la sua mente si perse nella contemplazione di una perfezione del tutto vuota.

Infine, il terzo avventuriero, il più intelligente, bello e coraggioso dei tre, mise il suo petalo nella tazza emanante vapor acqueo. Per un istante ripensò a ciò che si era lasciato dietro, a una vita di amicizie, amori, avventure, ricchezze, prestigio e potere di cui avrebbe potuto godere se solo avesse deciso di farlo. Era giovane, e aveva tutto ciò che poteva rendere grande un uomo: non doveva far altro che chiedere se il mondo era in vendita, ma aveva scelto qualcos’altro.

Aveva scelto di avere di più.

Socchiuse le morbide ciglia sui cerulei occhi, la bocca dipinta in un sorriso estatico, mormorò: “Voglio sapere“; poi immerse le narici nel fumo, colorato di un nero talmente perfetto che, sebbene invisibili all’occhio, il cervello coglieva in esso tutte le sfumature degli altri colori.

E allora l’orrore gli travolse la coscienza, mentre osservava il suo universo svanire, disintegrarsi, essere cancellato da tutto ciò che era esistente; per lasciare spazio a una stanza vuota, dove un uomo, un ragazzo esposto alla strana luce di una macchina sconosciuta, batteva le dita su uno strumento che produceva parole, che comparendo sullo schermo gli diedero l’ultima, terribile, estrema consapevolezza.

Sono, siamo, l’universo è, solo il parto dell’immaginazione di una persona, che vive in un mondo differente. Nulla è mai esistito davvero”.

Lo scrittore gli concesse il tempo di riaprire gli occhi, e di vedere le ultime stelle che si spegnevano, nel collasso della volta celeste.

Il terzo petalo, porta la realtà.

Nicodaemon

@twitTagli

[Se ad un certo punto, ai lettori sembra di individuare una citazione di Fabrizio De Andrè, sappiano che è un omaggio intenzionale]

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