Dopo quanto abbiamo visto nella premessa, vediamo attraverso quali vicende si giunse alla cosiddetta «Seconda Guerra d’Indipendenza». L’iniziativa per l’alleanza franco-piemontese fu presa da Napoleone III che convocò personalmente il Primo Ministro sabaudo, Cavour, presso la sede termale di Plombières (21 luglio 1858). Il Bonaparte coltivava un più ampio progetto personale di politica egemonica, tuttavia un interesse comune con Cavour c’era: l’estromissione austriaca dall’Italia settentrionale e la creazione di un Regno d’Alta Italia.
Il trattato, firmato nel gennaio 1859, prevedeva un’alleanza tra Francia e Regno di Sardegna in caso di aggressione da parte dell’Impero asburgico. Nessuna tregua sarebbe stata contratta da nessuno dei due contraenti «senza averne preventivamente deliberato in comune». In caso di vittoria, il regno sabaudo avrebbe esteso il suo dominio sul settentrione italiano, compresi i ducati di Modena e Parma, la Romagna e le Legazioni Pontificie.
Si sarebbe poi formato un Regno dell’Italia centrale di cui si trattò in termini generici. Roma e territori circostanti sarebbero rimasti sotto dominio pontificio, il Regno di Napoli sarebbe a sua volta rimasto indipendente. Alla Francia sarebbero andati la Savoia e Nizza. Nulla fu detto sull’assetto costituzionale che avrebbe assunto il nuovo regno, né tanto meno si discusse di eventuali unificazioni o federazioni.
Bisognava dunque provocare un casus belli, far saltare i nervi all’Impero asburgico per rendere operativi gli accordi. La situazione era però incerta per via di un contesto continentale ancora poco chiaro e per l’opposizione da parte di buona parte dell’opinione pubblica e del governo francesi (incluso Walewski, Ministro degli Esteri) al conflitto. Il quadro europeo volgerà progressivamente in favore dei piani franco-piemontesi con l’Impero russo volto verso la neutralità e con la Gran Bretagna e la Prussia non del tutto favorevoli, ma certo ostili a unire le armi con l’Impero asburgico (che dal canto suo già batteva i piedi per le mobilitazioni militari e l’afflusso di volontari a Torino).
Il tentativo di intavolare un’azione mediatrice incontrerà uno scoglio insormontabile nell’ostinazione della corte di Vienna nel difendere i trattati del 1815 e nell’insistere affinché il Regno sabaudo disarmasse in modo unilaterale.
L’ultimatum inviato a Torino da parte austriaca ruppe ogni residuo tentativo di pacificazione: pretendeva il disarmo del Regno di Sardegna pena l’intervento diretto per imporre la pace con la forza – come nella migliore delle tradizioni restauratrici. L’imperatore Francesco Giuseppe era caduto nella trappola, il conflitto esplodeva (fine aprile-inizio maggio 1859) e i rapidi spostamenti delle truppe francesi verso il fronte con il Lombardo-Veneto permisero una veloce congiungimento delle forze. I successi riportati dai franco-piemontesi a Magenta (4 giugno), a Solferino e a San Martino (24 giugno) favorirono le insurrezioni patriottiche in Toscana, nelle Legazioni Pontificie e nei ducati di Modena e Parma.
Tuttavia le operazioni napoleoniche furono connotate da grande lentezza e da uno scarso uso delle forze disponibili – rinunciando peraltro all’inseguimento delle truppe asburgiche in ritirata verso il Veneto. L’esercito austriaco si vide seriamente minacciato solo il 30 giugno quando le truppe franco-sabaude oltrepassarono il Mincio in direzione di Pescheria e Verona e la flotta alleata sull’Adriatico era pronta a prendere Venezia. A quel punto però, in modo improvviso e unilaterale, Napoleone III propose all’imperatore Francesco Giuseppe l’apertura dei negoziati per l’armistizio.
Come si può spiegare questo tiro mancino di Napoleone III e la rottura gli accordi presi a Plombières? Le ragioni furono soprattutto legate alla situazione che si stava determinando nella penisola italiana. Il Granducato di Toscana, attraverso la figura-chiave del barone Ricasoli, aveva chiesto a Vittorio Emanuele II di assumere la dittatura dello Stato toscano durante la guerra – ma fu possibile instaurare il solo protettorato militare e diplomatico. Nei ducati di Modena e Parma gli avvenimenti seguirono una tendenza similare, ma ciò sarebbe ancora rientrato negli accordi franco-piemontesi. Anche nelle Legazioni Pontificie si ebbe il medesimo sviluppo, ma quest’area era stata oggetto di revisione da parte di Napoleone III, preoccupato di urtare il Papa. Quest’ultimo reagì infatti con la forza all’insurrezione rioccupando le Marche e l’Umbria.
La situazione determinatasi nell’Italia centrale cozzava fortemente coi disegni egemonici di Napoleone III: egli per vincere una guerra che non avrebbe comportato alcun vantaggio reale avrebbe dovuto chiedere un ulteriore sforzo non solo bellico ma anche economico al popolo francese (che sarebbe stato mal recepito in patria). Il quadro europeo nel mentre era mutato. La Prussia, timorosa di una possibile estensione del potere del Bonaparte a minacciare la Confederazione germanica, intensificava la mobilitazione militare mentre promuoveva nuove mediazioni. La Gran Bretagna, nonostante le simpatie verso la causa italiana, temeva a sua volta un probabile espansionismo francese e supportò l’iniziativa mediatrice prussiana.
- la formazione di una Confederazione italiana sotto la presidenza onoraria dal pontefice;
- la cessione della sola Lombardia al Regno di Sardegna;
- la restaurazione dei legittimi sovrani in Toscana, Modena e Parma;
- l’amnistia generale e la richiesta al papa di introdurre riforme all’interno dei propri possedimenti.
L’armistizio sarebbe stato ratificato alla conferenza di pace a Zurigo (10-11 novembre 1859). Cavour, nonostante avesse ben chiaro il contesto internazionale determinatosi, non credeva che Napoleone III avrebbe optato per una pace separata. Vittorio Emanuele II poteva in fondo contentarsi del risultato – e infatti non fece nulla per richiamare l’imperatore francese agli impegni presi: ciò provocò sembra un diverbio asprissimo tra Cavour e lo stesso sovrano sabaudo. Fallito il tentativo di un incontro col Bonaparte, al Primo Ministro sabaudo non restò che rassegnare le dimissioni.
Il progetto cavouriano era fallito poiché era venuto meno l’accordo col bonapartismo su cui poggiava. Cavour era stato abile nel coniugare le aspirazioni del movimento nazionale moderato con le mire espansionistiche di Napoleone III in un programma minimo – che perseguiva nel frattempo gli interessi della corona sabauda. Ciò dimostra quanto le capacità diplomatiche e mediatrici fossero determinanti nello scacchiere politico europeo.
Fu una mancanza di lealtà quella dell’imperatore francese agli impegni presi? Moralmente se ne può discutere, ma politicamente la ragione era con Napoleone III: l’accordo franco-sabaudo era nettamente sbilanciato in termini di forza a favore del Bonaparte che infatti, visto un evolversi degli avvenimenti contrario ai suoi interessi e in un contesto ostile, fece valere il suo peso. Tutto questo, a riprova ulteriore della crucialità degli equilibri internazionali nel processo che condusse all’unificazione nazionale.
doc. NEMO
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Bibliografia:
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Rosario Romeo, Cavour e il suo tempo, vol. III, (1854-1861), Laterza, Roma-Bari, 1984.
Stuart J. Woolf, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, vol. III, Dal primo Settecento all’Unità, Einaudi, Torino, 1973.
Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. IV, Dalla Rivoluzione nazionale all’Unità, Feltrinelli, Milano, 1972.