L’ultima edizione sanremese diretta da Baglioni ha visto la presenza di una canzone del noto gruppo indie Lo Stato Sociale, che ha ricevuto un’accoglienza particolarmente calda.
La band bolognese è riuscita a raccogliere l’attenzione del “grande pubblico” con un’esibizione leggera, divertita e segnata dalla presenza di un’anziana signora – “una vecchia che balla” – in grado di muoversi con energia insospettabile, creando quell’elemento di viralità essenziale per bucare lo schermo su vari livelli mediali.
Andando oltre gli elementi dello spettacolo, oltre la musica ammiccante, c’è un messaggio politico molto duro sulla società italiana, che il mondo sanremese ha volutamente ignorato. “Una vita in vacanza” pensandoci bene è l’istantanea di un sogno delirante e decadente di chi non sopporta il proprio lavoro, ma non riesce realisticamente a vedere una via d’uscita. La band ci obbliga a domandarci fino a che punto questo sogno è anche il nostro.
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Lo Stato Sociale & le figure tristi della classe disagiata
Il pezzo è semplice e diretto: un affresco delle posizioni/condizioni sociali e lavorative più comuni nel racconto mediatico dell’Italia di questi anni. La cosa interessante è che il lavoro, i successi, le sconfitte ecc. vengono considerate come atteggiamenti, prese di posizione sociali.
Le dimensioni professionali suonano come una recitazione di personaggi interpretati per essere riconosciuti, figurine che ognuno sceglie per identificarsi e affermarsi socialmente, per avere un “posto” nella commedia, anche cambiando improvvisamente sponda se è necessario. L’importante è apparire come diceva qualcuno, e l’attore che assume queste parti è un’unica grande figura storica: la generazione dei millenials, la mia.
(un parallelo illustre è “Il comportamento” di Gaber pezzo tratto da “Libertà obbligatoria”, e per certi versi l’impostazione ricorda la famosissima e sempre attuale “Ma il cielo è sempre più blu” di Rino Gaetano come denuncia di ipocrisia e contraddizioni italiane seppellite da un sano ottimismo verso il futuro.
E fai il cameriere, l’assicuratore, Il campione del mondo, la baby pensione
Fai il ricco di famiglia, l’eroe nazionale, Il poliziotto di quartiere, il rottamatore
Perché lo fai?
E fai il candidato poi l’esodato, Qualche volta fai il ladro o fai il derubato,
E fai opposizione e fai il duro e puro, E fai il figlio d’arte, la blogger di moda
Perché lo fai? Perché non te ne vai…?
“Una vita in vacanza, una vecchia che balla,
niente nuovo che avanza ma tutta la banda che suona e che canta,
per un mondo diverso, libertà e tempo perso e nessuno che rompe i coglioni..
nessuno che dice se sbagli sei fuori… sei fuori…”
E fai l’estetista e fai il laureato, e fai il caso umano, il pubblico in studio,
Fai il cuoco stellato e fai l’influencer, e fai il cantautore ma fai soldi col poker
Perché lo fai?
E fai l’analista di calciomercato, Il bioagricoltore, il toyboy, il santone,
Il motivatore, il demotivato, La risorsa umana, il disoccupato
Perché lo fai? Perché non te vai?
La domanda alla fine delle strofe apre uno squarcio nella routine della classe media. “Perché lo fai? Perché non te ne vai?” sembra presagire un’inversione di tendenza, seguita alla presa di coscienza che “così non può andare avanti”. Forse a tutti capita di domandarsi in certi momenti: “Perché lo sto facendo?!”
A quel punto l’ascoltatore si aspetta che il gruppo tiri fuori un progetto alternativo di società, ma per il personaggio in questione – i millenials – l’alternativa non c’è e la finestra d’opportunità per un futuro alternativo viene immediatamente richiusa: il protagonista non è in grado di uscire dallo schema lavoro-vacanza.
Nel ritornello infatti si richiama un discorso smaccatamente velleitario, tipico del lavoratore che soffre la routine e attende la vacanza come una specie di dimensione onirica da cui non vorrebbe mai uscire.
Vivere per lavorare
O lavorare per vivere
Fare soldi per non pensare
Parlare sempre e non ascoltare
Ridere per fare male
Fare pace per bombardare
Partire per poi ritornare
Il pezzo è radicalmente nichilista, ma non apocalittico: a mio avviso, ha un bersaglio.
A non avere speranza sono quelle persone alienate che vivono solo per raggiungere una posizione sociale. Questa mentalità non ci lascia altra scelta se non una triste ricerca di surrogati di felicità e di opposizione.
Il motivo di fiducia sta nel fatto che c’è molta speranza fuori da questo approccio – e questo lo dice innanzitutto lo stesso percorso della band, che fa una lunga gavetta prima di arrivare dove è arrivata.
La sfida per questa generazione sarà non cadere nei sogni alienanti che alimentano un sistema di malato (mosso da competizione e sottomissione), ma cercare altre strade.
Sul suo profilo Facebook, un giovane cantautore di Rieti, Carlo Valente, ha speso due parole sulla canzone, l’esibizione, il messaggio: tutti elementi indicativi della solidità del percorso artistico del gruppo. Valente è stato preciso come un goniometro: “ Lo Stato Sociale è l’unica band in gara a Sanremo che ha preso la questione Sanremo come va presa.
Leggerezza, paraculaggine, parziale menefreghismo, divertimento, irriverenza, gioco e totale lucidità (da non confondere con la sobrietà). Cose che fanno da mix perfetto con la “canzone orecchiabile”, scelta, forse addirittura casuale e non voluta, che accetto e condivido appieno a prescindere.
Mix perfetto ed esplosivo compiuto da ragazzi che vengono dalla strada, dal furgone, dai concerti stronzi nei club più strampalati d’Italia, dai chilometri veri e che conoscono a menadito le facce di chi li ascolta.
La gavetta insomma. Quella vera.
In più sono ragazzi impegnati su tutti i fronti, ragazzi incazzati e attivi sotto il punto di vista politico e che non hanno paura a schierarsi e a dire la loro (penso ai fatti del Labàs di Bologna di qualche tempo fa).
Insomma meritano tutto il rispetto di questo mondo”.
Nicola Cucchi