Dopo 25 anni trascorsi a Torino – gli ultimi a studiare Storia, dalle parti di Palazzo Nuovo – da 3 mesi e mezzo vivo a Monaco di Baviera.
Avevo sentito dire spesso che l’Erasmus sarebbe stato “l’anno più bello della mia vita” e che mi avrebbe “cambiato tantissimo”: pensavo che esagerassero.
Ora che mi ci trovo dentro fino al collo, voglio tentare di fare il punto su cosa sta significando per me, su come sta cambiando il mio modo di vedere il mondo.
Si parla spesso di Italiani all’estero, di come sono visti, di stereotipi. Roba trita e ritrita. Più interessante, secondo me, è invece capire come si vedono, si sentono e si pensano. Chiaro, in qualche mese non posso dire di essere diventato un esperto: eppure, vivere in uno studentato con altre 20 persone (quasi tutte studenti, quasi tutte straniere) mi rende nitide molte cose.
Parto da un dato di fondo, che a un certo punto della mia esperienza – eccola, la Subjektivität – è emerso in maniera evidente: gli uomini sono tutti uguali, noi siamo tutti uguali.
Parlo dell’umanità, dell’emotività, della psicologia dietro ai nostri comportamenti: ci fanno paura e ci divertono le stesse cose, abbiamo desideri simili, si hanno molto spesso le stesse sensazioni.
Ad esempio, per me è stato molto interessante sperimentare la somiglianza nell’umorismo – e l’umorismo di inizio Erasmus è di un tipo che si potrebbe definire scarno perché le parole per praticarlo, ahimè!, non sono poi molte. Ebbene, il politicamente scorretto e le battute a sfondo sessuale colpiscono ovunque.
È a partire da questa comunanza che si può imbastire il ragionamento “quanto mi sono sentito diverso e in certi casi inadeguato come italiano”.
Sarò brusco: siamo tutti uguali, ma noi italiani siamo diversi. Probabilmente è la matrice anglo-sassone a fare la differenza – ma chi voglio prendere in giro?, anche i nord-est-europei (Polonia, paesi baltici, Russia) assomigliano molto più agli anglo-sassoni.
Devo essere più concreto, devo esemplificare? Gli italiani parlano l’italiano, il resto del mondo inglese.
Non un inglese scolastico, dilettantesco; anzi, una lingua fluente, rapida e sufficientemente ricca di sfumature come può esserlo un inglese parlato un po’ più che decentemente. Certo, spesso si finisce a parlare delle stesse cose perché la barriera linguistica permane, e ci sono sfumature che non si possiedono in un altro linguaggio.
Ma gli italiani sono anni indietro per quanto riguarda il lessico, la fluidità e anche la sicurezza nel modo d’esprimersi.
Voglio dire: qui in Germania l’idraulico mi parlava in un (per me) perfetto inglese. Tirare ora in ballo le famigerate “responsabilità politiche” è molto comodo, specie in compresenza di un intero popolo che non pretende affatto che le cose cambino – e difatti le riforme scolastiche cadono tutte nel pozzo del “si dovrebbe fare di meglio, quindi no”.
Il nostro ritardo nell’uso dell’inglese è conclamato, non lo scopro certo io oggi. Non ho però sentito nessuno denunciarlo, né collegarlo alla questione di un sistema scolastico che produce sì grandi eccellenze, ma che nella media risulta obsoleto (perché praticamente i programmi ministeriali sono tutti in italiano) e altamente inefficiente (noi italiani possiamo lavorare facilmente solo a casa nostra).
Non so quanto e se collegare la questione-lingua alle altre differenze che ho scorto in questo soggiorno tedesco, ma l’idea è che un qualche nesso ci sia.
Mi son trovato a pensare all’italiano come a un individuo chiuso, anche solo a livello geografico perché – banalmente – viaggiare gli costa fatica intellettuale (comprendere quel che gli altri dicono).
La questione dei legami familiari – che in Italia appaiono più forti e saldi e oppressivi che altrove – in qualche modo si ricollega: non sarà forse che i nostri genitori non sono abituati a vederci partire per un molto lontano qualsiasi?
Fatto sta che il mio amico olandese sente il padre una volta al mese, e quando succede la conversazione non dura più di 5-10 minuti: “come stai?”, “bene, e tu?”, and something else.
La “nostra famiglia” ha sicuramente tantissimi pregi – primo fra tutti quello di farci stare bene – ma forse talvolta diventa ostacolo alla crescita personale, intesa come effettiva capacità di prendersi cura di se stessi, del proprio tempo, delle proprie responsabilità.
Parafrasando Marx, la struttura influenza la sovrastruttura, ed è inevitabile che lo stare bene ci impigrisca un po’.
Non voglio buttarmi in una sorta di storia della mentalità popolare europea, né trarre troppe conseguenze: mi limito a segnalare che qui a Monaco ci sono un sacco di studenti che prendono soggiorno in studentato pur abitando in Baviera.
Più in generale sento tantissime storie di ragazzi/e che non abitano più a casa dei loro genitori da quanto hanno incominciato l’università.
Spesso i giovani lavorano per mantenersi, e immagino che alcuni di loro finiscano fuori corso per questo.
Ecco, anche ‘sta cosa del “fuori corso”: mi sembra che qui sia meno grave, anche perché il mondo del lavoro resta a portata di una mano 25enne come 28enne.
Procediamo oltre, anche a costo di esser sbrigativi: all’Università di Torino mi è capitato più di una volta di dovermi sedere per terra perché l’aula non era sufficientemente grande per contenere i partecipanti a quel dato corso, e questa situazione spesso non si risolta fino alla fine delle lezioni.
Qui in Germania non può capitare una cosa del genere: l’Università è semplicemente un luogo d’eccellenza, e come tale si comporta/ti tratta.
L’igiene, la qualità del cibo, il clima meraviglioso specie sulle coste… sono tutti discorsi che ci sentiamo opporre non appena ci lanciamo in confronti con l’estero che spesso ci danno la percezione di una situazione (la nostra) per molti versi pietosa.
È un discorso di priorità: probabilmente questo autocompiacimento rivolto ai nostri punti di forza, questo coccolarsi ed oltretutto venire ulteriormente coccolati dai nostri nuclei più elementari, probabilmente a qualcuno basta.
Io sto vedendo non tanto infrastrutture che funzionano, non tanto nuove e migliori e più grandi opportunità lavorative. Io sto apprezzando una nuova filosofia di vita, e non credo che il sistema italiano permetta a tutti di avere una possibilità del genere – rendendo me, di fatto, un privilegiato.
È vero, nel mio studentato c’è un cinese che sporca in una maniera che è semplicemente da arresto – cardiaco per me, giudiziario per lui: la realtà è che però qui, nonostante le sue abitudini poco “salutari”, di sporcizia non muore nessuno, e intanto lui sta studiando a non so quante migliaia di km da casa.
E il cibo, se proprio devo dirlo, è buono dappertutto, basta avere la forchetta larga, più che buona.
Dopo qualche mese qui è più facile prendersela con un sistema come quello italiano che sembra sempre più essere arrivato alla frutta. “Tanto sono lontano“, per ancora qualche mese per giunta, e forse riuscirò sul serio a costruirmi un futuro altrove.
Ed è altrettanto facile rimanere semplicemente meravigliati dal diverso, soprattutto quando appare più capace di te. Ma c’è qualcosa che definirei ‘stanco’ nel modo di pensare italiano, ed è una stanchezza mentale, culturale.
Come in tutte le cose, il bello e il buono producono agio e poi vizio, e il fatto che ci consideriamo il Più Bel Paese Del Mondo ci ha fatto perdere l’orientamento su che cosa dovremmo fare per mantenerlo tale.
Maurizio Riguzzi
@twitTagli