Raccontando qualche vostra avventura mirabolante, potrebbe esservi capitato un interlocutore che vi scruta con occhio vitreo in ogni espressione del vostro viso. Le probabilità di trovarvi di fronte a un sociopatico restano comunque alte, ma c’è un’altra possibilità: vi siete imbattuti in un fan di Lie to me.
Questa serie tutto sommato recente (prima stagione: 2009) è basata sulle menzogne: sono l’oggetto di studio di Cal Lightman (Tim Roth, già attore-feticcio di Tarantino – che lo ha voluto dirigere in Le Iene, Pulp Fiction, Four rooms – ma anche splendido Novecento ne La leggenda del pianista sull’Oceano di Tornatore), metà eccentrico psicologo e metà detective.
In una Washington con un tasso di omicidi che nemmeno Caracas e Città del Messico sommate, Lightman viene chiamato a indagare su delitti di varia natura, incrociando personaggi borderline ed un’amplissima gamma di casi umani. Ma Lightman non è il classico piedipiatti: il suo metodo di indagine prevede interrogatori serrati e la scoperta della verità tramite il linguaggio del corpo e la mimica facciale dei sospettati.
Dal punto di vista della struttura narrativa, i personaggi sono molto delineati, pur senza rinunciare all’originalità: al protagonista – che è un assoluto vincente, competentissimo, smaliziato, cinico quanto basta per piacere al pubblico femminile e per scatenare velleità di identificazione nel maschio medio, ma con la sua buona dose di drammi interiori che non guasta mai) – si aggiungono due donne mozzafiato, colleghe dello scienziato, e il belloccio nerd-esistenzialista.
Una delle due è Gillian Foster, facente parte della categoria “Milf di altissima gamma”: Foster è una “semplice” psicologa, socia e braccio destro di Lightman. È divorziata, mostra grande affetto nei confronti di Lightman e tutti si aspettano che tra i due prima o poi salti fuori una relazione – momento che certificherà l’esaurimento della vena creativa degli sceneggiatori, ma questa è una mia cattiveria.
L’altra eroina è Ria Torres, giovane ispanoamericana che rappresenta l’American Dream: viene notata da Lightman mentre controlla bagagli all’aeroporto e lanciata nel mondo della psicologia criminale per diventare una donna di successo. Tra lei e il dottor Lightman si instaura una sorta di rivalità, che però non sfocia in una competizione vera e propria: troppo netta la distinzione tra chi è “up” e chi è “down”.
Completa il quartetto Eli Locker, l’eccentrico del gruppo: brillante secchione, per propria filosofia di vita dice sempre la verità, generando situazioni che nella maggior parte dei casi allentano la tensione.
I quattro alternano bene i momenti di predominio scenico, soprattutto nella prima stagione in cui i casi da risolvere per ogni puntata sono due: questo permette agli sceneggiatori di mischiare le coppie e mostrare come reagiscono i protagonisti, non solo nell’affrontare le varie sfaccettature del mondo criminale ma anche nel rapportarsi tra loro.
La recitazione è fluida, le trame spesso azzeccate: il format permette al pubblico di apprezzare anche episodi isolati – una mossa vincente, perché basta seguire una puntata per rimanere coinvolti, senza necessità di grandi background.
Anche le tematiche tentano di uscire dalle banali storie dal cattivo preconfezionato: si è parlato di alcol, di serial killer, di crisi economica, di prostituzione e narcotraffico.
La traduzione italiana dei dialoghi è efficace, ed il doppiaggio come al solito di buon livello: giusto ogni tanto, si può provare l’effetto della lingua originale, per apprezzare l’accento assolutamente british di Tim Roth (piccola chicca: l’origine britannica del personaggio è sottolineata anche da una sciarpa del West Ham United, squadra calcistica londinese che presumibilmente non dice nulla al pubblico a stelle e strisce) contrapposto allo slang americano degli altri tre personaggi principali.
Umberto Mangiardi
@UMangiardi