L’economia non è una scienza esatta

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Ce lo chiede l’Europa
Bisogna fare le riforme
Non ci sono i soldi

Queste frasi le conosciamo. I governi – in Italia e all’estero – le ripetono ossessivamente ogni giorno per ricordarci l’inevitabilità delle loro misure economiche. Il vecchio continente è ormai pervaso da un senso di triste rassegnazione, quasi non vi fosse alternativa alla terapia di lacrime e sangue che dovrebbe farci riemergere dalla palude economica.

In questi anni, infatti, l’economia ci è stata presentata come una scienza esatta, disseminata di misteriosi calcoli matematici e di incomprensibili termini anglosassoni (spread, rating, spending review, fiscal compact, eccetera). Di fatto, quando ascoltiamo economisti, ministri e banchieri centrali, a nessuno di noi verrebbe in mente di contestare le loro illuminate analisi economiche: dunque le accettiamo pigramente come verità incontrovertibili. Ma la realtà è molto diversa.

Da circa quarant’anni la corrente dominante in economia è il neoliberismo, fautore della cosiddetta “teoria neoclassica”, secondo la quale – in estrema sintesi – il mercato è un sistema razionale e infallibile, capace di regolarsi da solo senza l’intervento dello Stato. Nelle facoltà di economia di tutto il mondo la teoria neoclassica è spesso l’unica insegnata, mentre alle altre è dedicato uno spazio marginale (qui potete leggere sulla pagina del Guardian un appello rivolto da un gruppo di studenti dell’Università di Manchester perché i corsi di economia degli atenei inglesi si aprano al pluralismo e la teoria neoclassica sia spiegata in abbinamento alle altre, mentre qui potete trovare la traduzione in italiano).

trojka 1Di conseguenza, i neolaureati in economia – alcuni dei quali occuperanno posizioni di potere nei governi, nelle banche, nelle istituzioni sovranazionali e a loro volta nelle università – applicheranno meccanicamente la teoria neoclassica, considerandola la sola investita di validità scientifica. Nel 2008, la Regina Elisabetta II, in visita alla London School of Economics, domandò irritata alla pletora di economisti presenti all’incontro perché nessuno di loro fosse riuscito a prevedere la crisi economica. Naturalmente nessuno di loro seppe rispondere, dal momento che tutti avevano basato le loro predizioni economiche su fallaci modelli matematici, alcuni dei quali sono così bizzarri che scappa da ridere a raccontarli (ad esempio la formula che dovrebbe prevedere il prezzo dei titoli azionari in borsa deriva da quella del moto di Brown, originariamente elaborata per studiare il movimento dei grani di polline).

Lo scorso anno ha fatto rumore la notizia che un rapporto stilato da due celebri professori di Harvard, Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, e diventato la Bibbia degli esperti di economia dell’Unione Europea, era clamorosamente sbagliato, anche a causa di un banale – quanto fatale – errore di calcolo nel foglio Excel. A scoprire l’abbaglio è stato un semplice dottorando di economia. Lo studio di Reinhart e Rogoff assumeva che i paesi con un debito pubblico superiore al 90% fossero destinati a una crescita economica pressoché nulla, se non addirittura negativa. Nonostante i due autori si limitassero a suggerire una correlazione tra i due parametri senza fornire ricette inconfutabili, il loro rapporto è stato acriticamente accolto per sostenere le misure di austerity in Europa.

Infatti, il commissario Ue per l’Economia, l’ineffabile Olli Rehn – quello che ogni settimana rimprovera l’Italia trattandola come uno studentello svogliato che non svolge i compiti a casa – nel febbraio 2013 sosteneva:

È ampiamente riconosciuto, sulla base di ricerca accademica seria, che il debito pubblico, quando supera il 90%, tende ad avere un impatto negativo sul dinamismo economico, che si traduce in bassa crescita per molti anni. Questo è il motivo per cui un consolidamento fiscale consistente e calibrato rimane necessario in Europa”

(fonte: Micromega)

Il fatto che a Bruxelles e Francoforte l’austerity sia ancora elevata a dogma imprescindibile, nonostante si sia empiricamente rivelata fallimentare, fa insorgere il sospetto – e a ben vedere è molto più di un sospetto – che dietro gli articolati tecnicismi, dietro le sottili circonlocuzioni, dietro le astruse formule matematiche, dietro l’apparentemente inappuntabile fatalismo dei presunti esperti economici, si nasconda in realtà una precisa ideologia politica, che mira a indebolire lo stato sociale con la scusa della crisi economica.

Insomma, facendoci credere che l’economia sia una scienza esatta, si vogliono rendere arrendevoli i cittadini di fronte a delle decisioni politiche bellamente mascherate dai crismi di false verità scientifiche. In questo modo, si spengono sul nascere le eventuali critiche alle misure di rigore fiscale, all’attuazione di nuove tasse, all’indebolimento dei servizi essenziali e dei diritti fondamentali, impedendo che sorga un sano dibattito sulla bontà o meno delle proposte neoliberiste.

I risultati di questa strategia ideologica sono evidenti a tutti. A pochi mesi dalle elezioni comunitarie, secondo un recente sondaggio Gallup, soltanto in 3 paesi (Germania, Belgio e Lussemburgo) sui 28 che compongono l’Unione è presente una maggioranza favorevole all’attuale leadership europea.

Se, come pare, dalle prossime elezioni dovessero risorgere certi demoni che pensavamo sepolti sotto la polvere della storia (nazionalismi, fascismi e autoritarismi), sappiamo contro chi dobbiamo puntare il dito.

Jacopo Di Miceli
@twitTagli

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