Sono le nostre bolle social il terreno fertile per le fake news?


Un mondo che possa essere spiegato, sia pure con cattive ragioni, è un mondo familiare;
ma viceversa, in un universo subitamente spogliato di illusioni e di luci,
l’uomo si sente un estraneo, e tale esilio è senza rimedio,
perché privato dei ricordi di una patria perduta o della speranza di una terra promessa
Albert Camus, Il mito di Sisifo

Il 4 dicembre 2016, un uomo è entrato nel Comet Ping Pong, noto ristorante di Washington DC, ha puntato la pistola ai dipendenti del locale e ha aperto il fuoco. Fortunatamente non ci sono stati feriti. Catturato dalla polizia, l’autore del gesto ha espresso di essere stato spinto da una buona intenzione: sgominare il presunto circolo di pedofili vicino al Partito Democratico all’interno del Comet.
Il percorso che ha portato il giovane ventottenne a questa tragica mossa ha origine in un fenomeno delicato e attuale: la diffusione di fake news. Aveva infatti raccolto sul web una serie di prove, che sembravano schiaccianti, a favore della propria teoria (il cosiddetto Pizzagate), ma che non hanno retto il confronto con la realtà, perché lui stesso, dopo l’irruzione, ha ammesso di non aver trovato nulla di ciò che cercava.

Perché le persone credono e diffondono notizie false? Quali procedimenti mentali – e perché no, network neurali- sono coinvolti? Senza aver ben chiaro tutto questo, difficilmente si potrà predisporre una possibile strategia per contrastare il fenomeno.

Partiamo dalla fonte delle fake news: i media. Da tempo è studiata la loro capacità di configurare l’immaginario collettivo. Una nota teoria di psicologia sociale, la cosiddetta agenda setting, ha ipotizzato una correlazione tra la salienza di un tema percepita dal pubblico e l’insistenza dei media su di esso.

Nell’esperimento del 1968 che portò alla formulazione della teoria, McCombs e Shaw misurarono, tramite interviste, la salienza attribuita a diversi temi politici da parte degli elettori, confrontandola con quella attribuita dai media di cui gli elettori usufruivano; non solo, la confrontarono inoltre con l’effettiva insistenza sul tema da parte dei candidati.

I risultati sembrarono proprio suggerire che il mondo della politica fosse riprodotto in maniera imperfetta dai media (si dice che ne fanno una narrazione) e che gli elettori tendessero a condividere la propria percezione del mondo politico più con i media che con i politici stessi. L’agenda setting si configura quindi come il potere dei media di dettare i temi di discussione politica. In altre parole, la visione che abbiamo del mondo è mediata dal filtro dei media: sebbene i media non ci dicano cosa pensare, è come se ci dicessero a proposito di cosa pensare.

Un altro importante fattore personale è tuttavia in gioco, ossia il complesso di credenze che ognuno di noi ha in merito a politica, attualità, morale. Questo sistema di idee, radicato nella personalità, se da una parte ci permette di non essere materia inerte da scolpire a piacimento dei mezzi di comunicazione, dall’altra ci spinge naturalmente ad affidarci a chiavi di lettura aderenti a esso e a professionisti del settore che ci aiutino a orientarci nella fitta rete di informazioni della società. Inevitabilmente, sceglieremo i giornali più schierati e combacianti con la nostra visione del mondo e ciò tenderà di conseguenza a rafforzare le nostre credenze.

Secondo i dati Eurispes 2016, ormai il 76% degli italiani possiede uno smartphone; in cima alla classifica degli utilizzi prediletti della connessione (con il 97,8% di persone che affermano di usarla in tal modo) c’è la ricerca di informazioni. Sono oltre il 70% gli italiani che si informano sul web. In particolare, secondo il rapporto Censis sull’informazione 2017, mentre crolla la fruizione di quotidiani e periodici, Facebook è diventato il secondo metodo più utilizzato dagli italiani per informarsi.

Quali sono però gli effetti sull’informazione di questa rivoluzione? In mancanza del “filtro” mediato dal sistema giornalistico, per quanto potesse essere a sua volta vittima di un bias pregiudiziale, ora sono gli utenti stessi a creare i filtri necessari a scremare le notizie, attraverso un processo mentale favorito dagli algoritmi dei maggiori siti che visitiamo: il confirmation bias.

Si potrebbe dire che anche prima, comprando un giornale orientato politicamente, interveniva ugualmente il confirmation bias. C’è tuttavia una sostanziale differenza tra il sistema precedente e l’attuale: nel momento in cui decido di comprare un quotidiano politicamente schierato, o di seguire le notizie su Fox News, sto attivamente scegliendo un paio di lenti con cui guardare al mondo. Nella filter bubble, la personalizzazione dei contenuti che piacciono a noi e alle persone simili a noi, questo non avviene, perché la selezione delle notizie sembra neutrale.
Oggi le grandi aziende sul web operano dunque qualcosa di simile all’agenda setting, con la differenza che la narrazione proposta tenderà sempre più a coincidere con i nostri interessi e il nostro sistema di credenze.

L’esposizione selettiva a determinati contenuti induce a interagire con persone che hanno interessi e opinioni in comune. Si formano così le echo chambers, gruppi sociali virtuali in cui le idee si comportano come un’eco che rimbalza contro le pareti di una stanza chiusa: un sistema autoreferenziale. Senza alcun ostacolo contraddittorio, le idee si polarizzano e anche gli individui più cauti, interagendo con gli altri membri, assumono atteggiamenti più radicali rispetto all’orientamento preesistente. È esattamente qui che si inserisce la possibilità di credere a una notizia falsa o distorta: più l’individuo sarà polarizzato, maggiore sarà la possibilità che creda a una notizia falsa ma coerente col suo sistema di riferimento.

Le camere di risonanza, però, non sono camere stagne. Il dibattito online non è solo all’interno di gruppi omogenei, ma è anche una guerra di trincea tra visioni opposte. Nonostante gli studi abbiano dimostrato che le occasioni di confronto con narrazioni opposte alla propria sono sempre più rare online, non è infatti possibile escludere del tutto dalla propria vita le vedute divergenti. A questo punto la questione si fa più complessa, poiché la conferma non è l’unico modo attraverso cui rinforziamo le nostre credenze, anche il contrasto, sebbene sia controintuitivo, può portare allo stesso esito.

Uno studio dell’istituto norvegese per la ricerca sociale ha provato a indagare proprio il fenomeno di questo disconfirmation bias, che consiste nell’attribuire minore rilevanza agli argomenti contrari al nostro pregiudizio. A un gruppo di partecipanti è stato chiesto con quale frequenza gli è capitato di confrontarsi (o scontrarsi!) sul web con persone dalle opinioni opposte alle loro, e, in seguito al confronto, di registrare l’eventuale mutamento di opinione. Questi i risultati:

Come si vede, la maggioranza delle persone che non cambiano opinione dopo un dibattito è schiacciante. Questo fenomeno è stato studiato più nel dettaglio da un gruppo di ricercatori italiani, che, osservando la risposta di utenti polarizzati aderenti a una particolare narrazione (quella delle scienze alternative), hanno scoperto che l’esposizione al debunking rinsaldava, invece che indebolire, il loro sistema di credenze.

Anche quando di fronte all’evidenza, cambiare idea è quindi difficile, soprattutto se la credenza tocca importanti aspetti della personalità e della biografia dell’individuo, o le sue emozioni, come ha dimostrato  un interessante studio della University of Southern California.
I ricercatori hanno selezionato quaranta individui particolarmente polarizzati politicamente che rispondevano alle seguenti caratteristiche: progressisti, non mancini, età tra 18 e 39 anni. Al momento dell’esperimento i partecipanti si sono accomodati nella macchina per la risonanza magnetica funzionale, e a ognuno sono state proposte sedici asserzioni a cui avevano precedentemente assegnato un punteggio di credenza di 6 o 7 in una scala da 1 a 7. Otto di queste asserzioni riguardavano temi politici, come la legittimità dell’aborto e l’opportunità di tassare le fasce più abbienti della popolazione; le rimanenti riguardavano invece i temi più svariati, come la storia (“Thomas Edison ha inventato la lampadina”) e la salute (“bere una bevanda multivitaminica la mattina migliora la salute”).
Dopo ogni proposizione venivano proiettate quindi cinque contro-argomentazioni supportate da prove, talvolta distorte o irreali per rendere l’argomento più persuasivo. Dopo aver letto le cinque controevidenze, il partecipante rileggeva la proposizione iniziale a cui poteva ri-attribuire un punteggio di credenza da 1 a 7.

Innanzitutto il risultato comportamentale: la forza della credenza dei partecipanti decresce maggiormente per le proposizioni dal contenuto non politico. In generale le proposizioni politiche sono quelle che più difficilmente hanno subito modifiche, visto che toccano temi centrali per l’identità sociale.
Difendere le proprie idee contro evidenze che le sfidano è una forma di pensiero diretta verso l’interno, che coinvolge tanto la disconnessione dall’esterno quanto la ricerca nella memoria di contro-argomentazioni rilevanti.

Ma è anche interessante è notare che, tra le aree specifiche che si attivano per resistere alle confutazioni altrui, c’è l’amigdala, una ghiandola connessa alle emozioni e, soprattutto, alle manifestazioni di paura. Persone con lesioni all’amigdala si mostrano più fiduciose e amichevoli nei confronti degli altri, come se avessero una minore percezione del pericolo. Per converso, stimolando elettricamente l’amigdala, si accrescono ansia e paura negli esseri umani, e una combinazione di paura e aggressività violenta nei gatti. L’amigdala ha infatti un ruolo anche nel comportamento aggressivo.
Lo scienziato americano Karl Pribram ha provato a produrre lesioni dell’amigdala al membro alfa di una colonia di scimmie, e questo è caduto in basso nella gerarchia sociale. Successivamente ha praticato una amigdalectomia sulla nuova scimmia dominante, che a sua volta è stata scalzata dal comando. Questo dato può suggerire che l’amigdala sia coinvolta anche nelle manifestazioni di aggressività sociale.

Il cervello reagisce dunque a un’opinione diversa che cerca di imporsi sulla propria come se si trattasse di un vero attacco fisico alla persona. Irrigidimento delle posizioni, radicalizzazione e backfire effect sono gli effetti non voluti che si possono scatenare quando si tenta di screditare le opinioni di un’altra persona.

Per rispondere all’emergenza fake news, si è pensato di costruire bot ed elaborare algoritmi capaci di discernere la notizia vera da quella falsa. Per ora hanno fallito tutti. La realtà dopotutto raramente è dicotomica, pensare che la si possa ridurre a un punteggio di 0 e 1 è una semplificazione; è più probabile che una descrizione degli eventi si situi nelle infinite sfumature tra lo zero e l’uno. In altre parole, la realtà è complessa, ed è proprio per rispondere a tale complessità che abbiamo sviluppato i comportamenti sopra descritti.

Allora potremmo cominciare da qui, dal prendere coscienza del funzionamento del nostro sistema cognitivo: sarebbe un primo ma fondamentale passo per la pianificazione di strategie atte a contrastare la diffusione di fake news.

Federica VS

Post Correlati