
Se guardandosi allo specchio si scopre di rimanere schifati di fronte all’immagine riflessa, non c’è bisogno di preoccuparsi: c’è sempre qualcuno che fa più schifo di te. È la logica imprescindibile della rabbia da tastiera.
La rete è sempre più invasa da un esercito inviperito di consumatori di comunicazione in pillole: sempre più emotiva e sempre meno informativa.
E le tragedie come quella di #Lampedusa, con l’hashtag, sono solamente il più becero, ultimo esempio.
Milano, Torino, Bologna, Brescia: in molti stadi italiani, durante gli incontri di Serie A e B non si è rispettato il minuto di silenzio per i morti del Mediterraneo.
E subito si è alzato il coro di sdegno. Una rabbia ipocrita che dai mezzi di informazione ha invaso i social network, sempre più piazza della polemica sterile e male informata. Quasi come se si chiedesse alla curve ultras di farsi carico di civiltà ed educazione.
Eppure l’ipocrisia non si manifesta perché le curve vengono considerate antropologicamente incazzate e violente. E neanche perché il minuto di silenzio andrebbe rispettato, senza cori, fischi o applausi.
Si manifesta, invece, perché additando il tifo da stadio come razzista, si nasconde il razzismo degli altri. Lo stesso razzismo che si perpetua quotidianamente nei bar, nei posti di lavoro, sugli autobus e nelle redazioni dei quotidiani. Quel razzismo di chi inizia le frasi con “Non sono razzista, ma…”.
Ma anche quello più clericale e strisciante del “In fondo sono brava gente, proprio come noi”. Oppure quello meschino e piccolo borghese: “Non possiamo accoglierli tutti, non ce n’è neanche per gli Italiani”
E poi c’è l’indifferenza dell’informazione, sempre pronta a creare hashtag e campagne virali (in questo caso il bersaglio è giustamente la Bossi-Fini), ma la prima a ignorare la questione quando la burrasca è passata.
Si tornerà presto a usare termini come vu cumprà sulle pagine dei quotidiani e si tornerà a raccontare l’immigrazione solamente in termini di ordine pubblico.
I reporter di guerra, che scrivono dagli stessi Paesi dai quali provengono i morti di Lampedusa, continueranno a essere sottopagati e i loro reportage rimarranno sempre confinati poco prima della pagina Spettacoli.
Perché parlare di guerra, fame e rifugiati senza poter impacchettare un hashtag emotivo non porta nulla. Diceva qualcuno: “Quando un giudice punta il dito contro un povero fesso, nella mano tiene altre tre dita, che puntano se stesso.
Cercare la responsabilità culturale dell’inciviltà e dell’intolleranza all’interno degli stadi è facile. Più difficile, invece, è aprire il proprio armadio e guardarne gli scheletri nascosti.
Perché gli ululati delle curve non sono altro che una rappresentazione di quello che accade quotidianamente nelle nostre strade, ma arrivano in casa, attraverso i televisori Lcd durante una domenica pomeriggio in famiglia.
Ed è come guardarsi allo specchio. Indignarsi senza far proprio il sentimento totale dell’accoglienza è solo un palliativo per l’autostima: le voci di sdegno, mi dispiace, non sono rabbia autentica, ma solo vergogna.
Andrea Dotti
@twitTagli