A due settimane dalla riconferma a Presidente della Repubblica di Giorgio Napolitano proviamo ad analizzare (a metà tra il serio e il faceto) la parabola discendente che ha visto il povero Pierluigi Bersani passare da sicuro vincitore delle elezioni a simbolo della sconfitta del PD. Sicuramente Bersani che imita Crozza quando imita Bersani avrebbe una convincente metafora anche per questo articolo, magari qualcosa tipo “Uè Ragassi, non è che se la notizia la tagli con l’affettatrice vien fuori mortadella!”, ma nel frattempo iniziamo questa Via Crucis partendo dall’inizio.
I: Le Primarie: dai Rottamatori a Papa Giovanni
Con l’avvicinarsi della fine del Mandato di Mario Monti, inizia la gara alla carica di canditato premier che vede Bersani difendersi dagli attacchi del giovane rampante fiorentino Matteo Renzi, capitano della corrente dei “Rottamatori”, e gli outsider Vendola/Tabacci/Puppato: ne esce fuori un dibattito a tratti aspro e caotico, con reciproche accuse di brogli e scorrettezze, ma anche (come direbbe il buon Veltroni) serio e aperto, culminato in due dibattiti televisivi all’americana dove i vari contendenti sono chiamati a esporre il proprio programma. Proprio nel primo confronto però scatta il primo campanello d’allarme.
Alla domanda del conduttore: “Qual è per voi un’icona della sinistra?” i candidati si trincerano dietro a nomi che con la sinistra poco hanno a che fare: Renzi dice Mandela, Vendola il Cardinal Martini e Bersani “Papa Giovanni” (Paolo II per gli under 40 e XXIII per gli over 50 che non si scontenta nessuno?). Ma sono le primarie dell’UDC o del Centrosinistra?
II: la campagna elettorale: “Smacchieremo il Giaguaro”… Si, ma con chi?
Fatto sta che a colpi di metafore e in parte grazie alle parole di lode di Berlusconi per Renzi, Bersani conquista la vittoria alle primarie: parte ufficialmente la missione “smacchiamo il Giaguaro”, restano solo da decidere gli alleati. E qui iniziano i veri problemi. Inizialmente il buon Pierluigi cerca l’intesa con il premier uscente (nel frattempo “salito in politica” per salvare l’Italia) Mario Monti, imbrigliandosi tra i veti incrociati dello stesso premier e dell’alleato Nichi Vendola che minaccia di lasciare il PD nel caso di un’alleanza con il Professore. Il tira e molla che ne segue oscilla tra il ridicolo e la “bega di condominio”, dando sempre più l’idea di un partito che più che alla propria vittoria pensi alla sconfitta degli avversari, in primis Berlusconi; il pensiero che sembra aleggiare negli alti ranghi del PD è “gli italiani non si saranno certo dimenticati chi comandava fino a un anno fa!” e prestano poca attenzione ai due colpi di coda dell’indomito Giaguaro: Le promesse sull’IMU e l’acquisto di Mario Balotelli.
Questa sottovalutazione sommata alla poca attenzione nei confronti del noto comico genovese pentastellato, si rivelerà decisiva la sera del 25 Febbraio.
III: All’indomani del voto: “Non abbiamo perso, ma non abbiamo vinto…”
31, 30, 25.
Queste non sono le misure di un nano da giardino sexy, bensì la media dei voti ottenuti tra Camera e Senato, rispettivamente da PD+SEL, PDL e M5S (la scelta civica di Monti non andrà oltre il 10%). Appare subito evidente la sconfitta, o come la definisce lo stesso Bersani la non vittoria del PD, e mentre gli onorevoli del PDL svolgono sacrifici a base di caviale per ringraziare San Silvio di aver salvato le loro poltrone, nel PD si accende un dibattito molto costruttivo: tutti danno la colpa a tutti (ad eccezione, ovviamente, di se stessi). Questa dinamica, solitamente estranea alle coalizioni di centrosinistra (pffff…), getta ancora più nel caos il povero Bersani che si trova accerchiato dai suoi stessi alleati e dalle due macrofazioni PDL e M5S: proprio quest’ultimo sarà il maggior grattacapo per il segretario del PD, a causa della compattezza e impenetrabilità di questa nuova corrente politica. Ogni tentativo di raggiungere i neo eletti grillini cade nel vuoto (sarà stata colpa delle metafore?), anche quando a proporsi come mediatore è uno che con la dialettica ci sa fare, il buon Vendola: probabilmente però i grillini avevano frainteso i goliardici schernimenti del politico pugliese, che prima delle elezioni li aveva definiti simpaticamente “fascisti”, e rispediscono al mittente ogni proposta di dialogo.
A questo punto a Bersani non resta che prendere atto della situazione e presentarsi dal buon Giorgio Napolitano per decidere il da farsi.
IV: L’incarico di Napolitano: Dalla “salita in politica” alla salita e basta
“Tu quoque, Brute, fili mi!”.
A parti invertite è un po’ quello che è successo a Bersani con Napolitano, con il segretario che pensava di ottenere l’incarico formale di creare un governo e il Presidente che invece lo rispedisce nella bolgia del Parlamento con il misero incarico di valutare se esistano i requisiti di maggioranza per ottenere la fiducia. L’esito (per la verità scontato) delle consultazioni di Bersani è un nulla di fatto: da un lato appare improponibile un alleanza con l’eterno nemico Berlusconi e dall’altra l’indisponibilità a qualsiasi tipo di dialogo del M5S (vero refrain del movimento) fa franare qualsiasi ipotesi di formazione di un governo, costringendo Bersani a salire nuovamente al Colle senza buone notizie e sempre più demoralizzato. Di fronte alla gravità della situazione e all’impossibilita di sciogliere le Camere (nell’acido…) Napolitano nomina 10 “saggi” per stilare una lista dei punti cardine del prossimo (ipotetico) governo: incassato il rifiuto da parte degli Avengers a causa degli impegni cinematografici di Tony Stark, la scelta ricade su 10 personalità prese dall’ambito accademico/politico. Immediatamente si sviluppa un acceso dibattito sull’effettiva utilità dei saggi (peraltro messa in dubbio da uno dei saggi stessi) e alla fine il risultato del lavoro di questi mette d’accordo tutti: potevano non essere inutili, ma sono stati lapalissiani (vi rimando alla relazione finale).
Nel frattempo siamo arrivati alla fine del mandato di Napolitano ed è ora per Bersani di condurre il parlamento all’elezione del successore.
V: L’elezione del PdR: Marini, Prodi & Napolitano
Bersani è sempre più stremato e alla ricerca di un consenso trasversale in grado di fornirgli l’appoggio per formare un governo e, ricevuto l’ennesimo pacato “nooooooooo!!!come te lo devo dire?!” da parte del M5S, vira verso il PDL per cercare un’intesa sulla candidatura del Presidente della Repubblica. I negoziati condotti da Massimino D’Alema (ehi, ma non si era fatto da parte?) portano al nome di Franco Marini (classe 1933), infischiandosene però delle preferenze del PD stesso (che avrebbe preferito la Bonino); nel frattempo l’M5S tra attacchi di “hackers” e criceti mannari riesce a portare a casa le “Quirinarie”, ovvero la consultazione diretta dei cittadini sul nome da proporre per il colle. Questo voto plebiscitario (circa 26mila votanti su 48mila aventi diritto) candida Milena Gabanelli come prossimo PdR, ma è la stessa giornalista a tirarsene fuori autogiudicandosi “sopravvalutata” (a Scilipoti sarà esploso un timpano?) e dopo il rifiuto anche del secondo classificato, Gino Strada, la scelta finale dei grillini ricade sul “nuovo” Stefano Rodotà (classe 1933).
Questo nome raccoglie immediatamente i favori della folla e anche di buona parte degli onorevoli del PD, i quali decidono di far saltare le prime votazioni impallinando Marini. Siamo davanti all’ennesimo stallo. A questo punto Bersani tenta la manovra disperata di candidare qualcuno che possa piacere a tutte le frange del PD e anche ai grillini (che lo avevano nominato in “top 10”), il buon vecchio Romano “Mortazza” Prodi! “Ormai è fatta” pensa il Segretario, ma è costretto a ricredersi non appena scopre che oltre al PDL (che avrebbe votato più volentieri Lenin) a non votare per Prodi è anche il 25% del PD (ma come, non erano tutti d’accordo fino a un minuto prima?), invalidando anche la quarta votazione.
A questo punto ai partiti non resta che chiedere aiuto a Napolitano (Classe 1925, il quale era già in bermuda e camicia hawaiana pronto a godersi la meritata pensione) che si vede costretto ad accettare nuovamente l’incarico di Presidente.
VI: Le Dimissioni:
Questa ennesima sconfitta trascina il povero Pierluigi nello sconforto più totale e messo davanti al fatto di essere stato tradito da 1 su 4 dei suoi compagni di partito (era andata meglio persino a Gesù) sceglie di rassegnare le dimissioni. La disfatta è totale e il partito allo sbando: SEL è sempre più spostato verso i pentastellati, gli onorevoli del Piddì si dividono in renziani, bersaniani, d’alemiani e klingoniani e sono d’accordo solo sul prendersela con il segretario, accusato (contemporaneamente) di essere stato troppo rigido, troppo accondiscendente, troppo cattolico, troppo comunista, troppo conservatore e troppo liberale. Se la ride anche il Giaguaro, che è stato sì “smacchiato”, ma nel senso che è riuscito a togliersi di dosso l’etichetta di colpevole della crisi e ora è lì in prima fila a esaltare la figura di Napolitano (ma 7 anni fa non era un comunista da combattere?) e a sorridere per l’ennesima vittoria. Ormai l’unica amica rimasta a Bersani è la sua famosa birretta.
VII: La formazione del Governo:
Ma come in ogni commedia tragicomica che si rispetti non vi è danno senza beffa, ed ecco che dopo essere stato massacrato in maniera assolutamente tripartisan, a Bersani giunge l’umiliazione finale: a poter guidare il governissimo voluto da Napolitano potrebbe esserci Matteo Renzi. Si, proprio il Renzi della prima stazione (della Via Crucis, non la Leopolda), uscito sconfitto alle primarie ma mai domo, capace di sfuggire alle cronache quando si preannunciava la tempesta per poi tornare alla ribalta e dare l’affondo finale al proprio avversario, ottenendo come trofeo anche la testa dell’odiata Bindi.
Così se Grillo dice che eleggere Napolitano è stato un “golpettino” si può anche dire che a Renzi sia (quasi) riuscito il “golpaccio”, ora finalmente capiremo se il sindaco fiorentino è veramente il nuovo che avanza e l’alternativa politica alla Seconda fallimentare Repubblica. A Bersani non resta perciò altro che farsi da parte per il bene del partito che ha sempre difeso: certo, si potrebbe discutere su come il PD abbia così sacrificato uno dei pochi rappresentanti preparati e liberali che avesse, l’unico membro del centrosinistra degli ultimi vent’anni ad attaccare i poteri forti (si veda il decreto che porta il suo nome) e uno dei suoi membri maggiormente rispettati dai democratici europei, ma questa è un’altra storia.
Carlo Alberto Scaglia