La traccia di Joe Cocker

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Da piccolo amavo i Beatles, è una storia che vi ho già raccontato. Una storia che allora viaggiava sui nastri delle musicassette, generalmente nell’ingombrante a avveniristico impianto audio della macchina.
Insomma, un giorno siamo per l’appunto in macchina e babbo ha messo su una cassetta che mi suona completamente nuova. Io ascolto, curioso come sempre. A un certo punto passa un brano che mi pare di riconoscere: sembra She Came in Through the Bathroom Window, ma è diversa. Tanto diversa che pare un’altra canzone. Altro suono, altro mood, altra voce. Un’altra voce.
«Babbo, ma questi non sono i Beatles!»
«No, Andrea, questo è Joe Cocker».

Ovvio. Tautologico. Lapalissiano, finanche autoevidente se non sei un bambino di 7-8 anni che sta appena iniziando a fare i conti con la musica. Con quella semplicità mio padre risolse il mio enorme dubbio, quasi come fosse scontato che una canzone potesse conoscere un altro interprete e che quest’ultimo fosse considerabile un artista di grande livello e spessore, tanto da essere semplicemente citato per nome e cognome.
Joe Cocker. Facile, no? È lui, come hai fatto a confonderlo – che ne so – coi Beatles? In macchina quel giorno c’era la musicassetta di Joe Cocker!, il suo primo LP datato 1969. Da lì in poi quel nome sarebbe sempre rimasto presente, una sorta di involontario riferimento costante. Già, perché ogni tanto rispuntava fuori quel simpatico idraulico britannico col suo vocione caldo e roco pensava bene di rifare capolino un po’ qua e un po’ là.

Te lo ritrovavi sempre da qualche parte, soprattutto quando qualcuno doveva mettere su (o semplicemente intonare a voce) un brano per sottolineare un’atmosfera sexy e seducente. L’abusato quanto celeberrimo tema di You Can Leave Your Hat On, quanto mi ci è voluto a scoprire che l’interpretazione più famosa di questo pezzo era legata al nostro Joe!
È probabilmente l’esempio più banale e scontato, ma è allo stesso tempo anche il più significativo: Joe Cocker forse non ha consegnato alla storia della musica un numero considerevole di brani composti e arrangiati di suo pugno, ma le sue performance e le sue interpretazioni sono rimaste immortali. Immediate, viscerali, comunicative, quasi come quelle di un qualunque appassionato che si approccia da dilettante alla musica riuscendo però a caricarla della sua personalità e del suo fervore. Trasformandola, insomma, in qualcos’altro, di proprio.

Tale, per certi versi, è stata la vicenda di Joe Cocker. Una gavetta nei pub e nei locali inglesi fino all’apoteosi di quella mitica Woodstock di cui il babbo mi ha poi spesso raccontato. Ed ecco spiegato come per lui fosse ovvio riconoscere la traccia di Joe Cocker.
Quel ragazzotto inglese magari aveva pochi numeri, ma aveva dalla sua una ficcante e dilagante passione. Pensiamo che, in fin dei conti, marcò la sua sortita a Woodstock con solo un pugno di cover, ma che qualunque pezzo passasse per le sue mani – o meglio per le sue corde vocali – acquisiva una nuova forma e un nuovo spirito. Merito anche della sue pesanti influenze soul e blues che si avvertono in tutti i brani che ha interpretato in quell’oramai famoso evento. Indelebili, su tutte, restano la sua Delta Lady di Leon Russel e la beatlesiana With a Little Help from My Firends arrangiata con un certo Jimmy Page alla chitarra.    

In quel periodo, mentre il rock si induriva e il pop si apriva a linguaggi più accessibili, Joe Cocker riportava entrambe le ramificazioni al tronco principale e primordiale da cui si erano sviluppate: la musica nera. In qualche modo era come se non rubasse nulla, ma come se riportasse qualcosa al suo posto ridando al contempo una nuova e più energica anima a quella lontana e seminale tradizione.
La testimonianza migliore resta, a mio avviso, il live Mad Dogs & Englishmen del 1970 che contiene e restituisce la grandezza dei primi passi del cantante britannico: le versioni di Cry Me a River, di Honky Tonk Women degli Stones e di Feelin’ Alright sono estremamente evocativi della felice sinergia trovata tra un vecchio mondo della musica e una nascente musica giovanile. Il resto, come si suol dire, è storia.

Il nastro di Mad Dogs & Englishmen, altro lascito paterno, l’ho custodito a lungo e con cura. Dopo tanto che non lo riascoltavo, stasera l’ho fatto suonare di nuovo. Così ho voluto salutare Joe, ricordando da dove è partito per diventare quello che è diventato e quella che, da ieri, è la traccia indelebile che ha lasciato nella musica.

doc. NEMO
@twitTagli 

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