Esiste una classifica in cui nessuno vorrebbe arrivare primo. È quella che misura il rischio di contrarre il Covid-19 sul luogo di lavoro. Elaborata per il dipartimento americano del lavoro, prende in considerazione tre parametri per ogni professione: la necessità di stare a contatto con il pubblico; il livello di prossimità fisica con altre persone; l’esposizione a situazioni di pericolo.
Nei primi quattro posti della classifica si collocano tre professioni odontoiatriche: l’igienista dentale, l’assistente alla poltrona e il dentista. Tutti e tre corrono un rischio paragonabile a quello affrontato dai tecnici sanitari nelle rianimazioni e superiore a quello del personale infermieristico. La poltrona del dentista è il luogo più a rischio Covid-19.
Il motivo è semplice e intuitivo: negli studi dentistici non solo si opera a pochi centimetri dalle vie respiratorie di persone che, per definizione, non possono indossare mascherine, ma si usano anche strumenti che provocano schizzi di saliva, sangue e secrezioni.
Diverse procedure odontoiatriche creano poi aerosol, minuscole particelle di diametro inferiore ai 50 micrometri che stazionano in aria e si depositano nell’ambiente resistendo anche per diverse ore. Schizzi e aerosol possono naturalmente contenere agenti patogeni contaminanti.
In un contesto pandemico in cui gli asintomatici sono portatori di infezione quanto i sintomatici, il rischio per chi lavora in uno studio dentistico è dunque elevatissimo.
Tracce di SARS-CoV-2 sono state infatti rilevate negli aerosol addirittura per tre ore.
Per tutta la durata della fase 1, il Ministero della Salute e le associazioni di categoria, tra cui quella dei dentisti (Andi), hanno raccomandato lo svolgimento degli interventi di sola urgenza. Dal 4 maggio diversi studi hanno, almeno parzialmente, ripreso l’attività, seguendo le indicazioni operative dell’Andi stessa, ancora però in attesa di validazione ufficiale da parte del tavolo tecnico governativo, e protocolli di odontoiatria come quello stilato dall’Ospedale Sacco di Milano.
Per capire come gli studi dentistici stanno tutelando la salute di chi lavora al loro interno e quella dei pazienti, ho contattato otto assistenti di studio odontoiatrico (aso) in giro per l’Italia.
Queste donne si trovano in una condizione di particolare debolezza, sia dal punto di vista sanitario, essendo più esposte agli aerosol dei dentisti stessi, sia lavorativa, essendo spesso le uniche dipendenti dello studio.
Il primo step di sicurezza è un triage telefonico, un questionario standard per accertare se il paziente presenta sintomi o se è stato a contatto con persone positive al virus. Nonostante si tratti di una vera e propria anamnesi, che richiederebbe l’esperienza clinica di un medico, come il dentista stesso, nella maggior parte dei casi il triage è svolto dalle aso e, talora, negli studi più grandi, dalle impiegate alla reception.
Dopo l’ammissione in studio, previo controllo della temperatura, il personale dentistico interviene sul paziente con dispositivi di protezione individuale simili a quelli dei reparti Covid: camici monouso con cappuccio, visiere per gli occhi, mascherine ffp2, guanti e copriscarpe.
Sono però sufficienti per scongiurare un’infezione durante gli interventi che generano aerosol? La questione è complessa.
Le Ffp2 filtrano fino al 94% delle particelle di aerosol più grandi di 600 nanometri, lasciando potenzialmente scoperti naso e bocca alle particelle di dimensioni inferiori – proprio quelle in cui si anniderebbe la concentrazione maggiore dell’Rna del virus (nello specifico fra i 250 e i 500 nanometri). In materia di contagio tramite aerosol, tuttavia, la scienza brancola ancora nel buio. Non è ancora chiaro se le particelle di aerosol contenenti microrganismi patogeni abbiano capacità infettiva, né se la presenza dell’Rna del virus basti di per sé, anche in altri contesti, a determinare un’infezione.
Per questa ragione e anche per la carenza di Dpi di livello superiore, come le Ffp3, che filtrano fino al 99%, quasi tutte le aso interpellate coprono la maschera Ffp2 con una mascherina chirurgica.
Alcune assistenti, che hanno scelto di restare anonime, riferiscono però di studi dentistici che si muovono senza alcuna cautela, come se non fosse in atto una pandemia.
In uno degli epicentri italiani del virus, a Milano, un dentista ha ricevuto pazienti per sedute di igiene ed estetica dentale durante il lockdown, nonostante fossero operazioni differibili secondo le direttive Andi e ministeriali. I primi di maggio, inoltre, ha praticato interventi che hanno prodotto aerosol senza dotare la sua dipendente di protezioni adeguate, lasciandola con un camice a mezze maniche e una mascherina chirurgica, perfettamente inutile contro le particelle di aerosol, come documenta una ricerca già nota dodici anni fa e recentemente rammentata in una pubblicazione su Nature.
Anche in uno studio dentistico abruzzese un’assistente alla poltrona ha dovuto partecipare a interventi con aerosol indossando sul viso una banale mascherina chirurgica, riutilizzata per giunta il giorno successivo. A preoccupare ancora di più, come riferisce l’aso, è che il datore di lavoro non concede neppure il tempo necessario per un’accurata sanificazione e aerazione dell’ambiente prima dell’arrivo del paziente successivo. Un comportamento sconsiderato che mette in pericolo sia lei sia i pazienti, trasformando di fatto lo studio dentistico in un potenziale focolaio epidemico.
La situazione di rischio in cui operano gli studi dentistici, pur seguendo le indicazioni al momento in vigore, ha ispirato, in alcuni Paesi esteri, una maggiore prudenza. L’Ada, l’American Dentist Association, che riunisce 163mila dentisti statunitensi, ha espressamente richiesto al governo un rifornimento di test per l’individuazione di eventuali asintomatici fra i pazienti.
Una lettera analoga è arrivata sulla scrivania del Presidente francese Macron dalla Società Odontologica di Parigi: nel testo si menziona l’EasyCov, un test salivare messo a punto dal CNRS francese, e l’RT-LAMP, un test sia nasale che salivare in grado di dare un responso in quindici-trenta minuti.
Entrambi i test sono leggibili a occhio nudo e compatibili con i tempi di lavoro di uno studio dentistico.
Qualche settimana fa, anche in Italia, la Sied (Società italiana di ergonomia dentale) aveva avanzato la richiesta di subordinare l’apertura degli studi alla somministrazione di tamponi o test su pazienti e personale dentistico, proprio in ragione della possibile diffusione del contagio tramite aerosol. «Se la spesa per i tamponi fosse a carico del servizio sanitario nazionale, si tratterebbe di una proposta intelligente», concorda Fulvia Magenga, segretario generale del sindacato delle aso (Siaso), ascoltata a questo proposito.
Infatti, per quanto siano disponibili strumenti per ridurre o minimizzare la produzione di aerosol, nessuno di questi garantisce da solo un’eliminazione totale delle particelle. Le autorità sanitarie dovrebbero quindi guardare con attenzione all’opportunità di dotare nel breve termine gli studi dentistici di tamponi salivari, come quello già approntato all’Università degli Studi dell’Insubria.
Sarebbero così tutelati i pazienti, il personale odontoiatrico, che potrebbe a sua volta sottoporsi regolarmente ai test, e si sgraverebbero inoltre le strutture pubbliche di ulteriori carichi diagnostici.
Jacopo Di Miceli