Se qualcuno vi dice che è in grado di raccontarvi cosa si prova a correre una Maratona, ridetegli in faccia: vi sta prendendo in giro, o non l’ha mai corsa.
Io, per esempio, ne ho corse sei e ancora non ci ho capito niente. So solo che una volta che ne hai corsa una non riesci più a smettere. So quanto rimanga stampato nella memoria il ricordo degli ultimi, interminabili, 195 metri, che ti fa dimenticare i 42 km che hai dovuto correre per arrivare lì, o le centinaia di chilometri che hai corso in allenamento.
In Maratona conta una cosa sola: finirla potendo dire di non aver mai camminato. Sia che tu ci abbia messo 4 ore o che tu abbia abbattuto il muro che tutti i maratoneti amatori sognano di oltrepassare, quello delle 3 ore.
Ma una volta che hai corso, e lo hai fatto per tutti quei maledetti 42.195 metri, ci sei, sei un “finisher”, un Maratoneta, poche balle.
E per dimostrare quanto realmente questo sia vero (quantomeno, nella grande famiglia dei podisti) vi racconto un episodio.
Un giorno della mia vita ho deciso di fare una Maratona, era l’autunno del 2008. Decisi di correre la Turin Marathon (che all’epoca era un evento primaverile).
Comunico la mia decisione in famiglia, per preparare tutti psicologicamente a quanto avrei rotto le scatole al mondo intero. A quel punto mio fratello maggiore mi soprende: “Allora la faccio anche io, la Maratona“.
Io sono tutto contento, già mi pregusto la compagnia del mio fratellone nei lunghi allenamenti che mi aspettano e, anzi, sono sollevato da non dovermi allenare sei mesi da solo. Anche perché venivo da anni di attività agonistica semi-professionistica in un altro sport, e quindi il mio approccio era più o meno scientifico: ci facciamo fare un programma di allenamento per la Maratona, ci alleniamo e la corriamo. Obiettivo: stare un secondo sotto le tre ore e trenta.
Ma mio fratello mi fredda: “No ma va! Io la corro e basta, mica mi alleno apposta“. Io inorridisco, gli spiego che la Maratona è una gara che non fa sconti, lo dicono tutti, se non ti alleni non la finisci, devi mangiare le cose giuste, avere le scarpe giuste, fare tutte le cose per bene.
Niente lui non sente ragioni: “Io continuo ad allenarmi quando posso e le mie scarpe da 30 euro vanno benissimo. Vedrai che poi io la finisco e tu magari sarai tra quelli che si fermano per crampi perché vai troppo forte“.
Come spesso accade tra fratelli, nessuno dei due convince l’altro, e i sei mesi successivi si svolgono secondo i piani: io mi alleno con una certa regolarità e con un metodo, mentre mio fratello usa il suo metodo “a sentimento”.
Entro anche in una squadra podistica, e inizio a conoscere tanti maratoneti. Tutti o quasi hanno reazioni divertite quando sentono la “storia” di mio fratello, e l’opinione è unanime: non ce la farà a finirla.
L’apice si raggiunge il sabato prima della gara: mio fratello, contro ogni norma del buon podista, decide di comprare un paio di scarpe nuove prima della gara. “Forse quelle che ho non sono adatte”, dice. Il proprietario del negozio, maratoneta di grande livello, è incredulo: “Ma davvero corri la gara domani? Ma quanti lunghi hai fatto? A quanto pensi di andare al km?”, domanda preoccupato. “Mah al massimo ho corso un’ora e mezza, ma domani punto a finirla, come viene viene”. Anche l’esperto si arrende, quasi sforzandosi gli vende le scarpe, ma di nascosto mi dice: “Tuo fratello è matto!”.
Arriva il giorno della gara. Io sono teso, ci vediamo la mattina alle 6 per una colazione a base di spaghetti. Mio fratello è tranquillissimo, il suo unico cruccio è la pioggia battente “spero di non ammalarmi, domani lavoro…”.
Partiamo sotto mezzo diluvio. Io inizio regolare, con il mio ritmo; Stefano (mio fratello) con il suo.
Sto abbastanza bene sino al trentesimo chilometro, poi mi spavento un po’, temo di sbattere contro il “muro dei 35” (la crisi nera che becca molti maratoneti). Ma quando arrivo al trentacinquesimo mi sblocco, mi sento bene e riesco anche ad accelerare.
Al trentanovesimo però inizio ad avere male al polpaccio sinistro, non nuovo a scherzi tipo crampi lancinanti. Ma nella mia testa risuona la frase di mio fratello, e me lo immagino che mi supera mentre io sono al lato della strada: stringo i denti, sino ad arrivare in via Roma, esaltato dalle ali di folla. Finale: 3.28′,35″, persino meglio del previsto.
Piove, fa freddo, ma ci si scalda con gli abbracci agli altri “finisher”. E poi c’è Lore, il mio migliore amico che è venuto a prendermi all’arrivo, abbracci anche con lui.
Ci si saluta tutti, prendo il mio zaino consegnato all’organizzazione, chiamo mia madre (che reagisce con un sobrio “Ma ci hai messo più di un’ora rispetto ai primi!“. Lasciamo perdere…).
Ormai sono arrivato da più di 40 minuti e Lore, che ha la macchina, inizia a manifestare una certa volontà di andare a casa. È scettico sull’utilità di aspettare mio fratello, sono tutti convinti che sia già a casa dopo aver preso l’autobus.
Pur rimanendo convinto che, anche solo per farmi dispetto, mio fratello comunque la finirà, cedo.
“Però prima di andare passiamo ancora un attimo all’arrivo per vedere, perché secondo me…”
Proprio mentre ci avviciniamo alle transenne, a 50 metri dall’arrivo lo vediamo spuntare, con la corsa un po’ appesantita ma ancora tonica. Iniziamo a urlare come dei pazzi, e lui sentendoci – novello Forrest Gump – ci viene incontro invece di andare verso l’arrivo. Gli urliamo di andare invece dritto, e quando lo raggiungiamo ci accoglie con un disarmato “Però ho corso sempre”.
Inutile dire che il giorno dopo del mio “sotto le treoremmezza” interessava fino a un certo punto. L’argomento del giorno era Stefano. Tutti mi chiedevano: “Ma tuo fratello che ha combinato poi? Quanto ci ha messo?”.
“Ah, boh, l’ha finita in 4 ore e 16 minuti”.
A quel punto, tutti esclamavano: “Ma è un fenomeno! Un idolo! Un grandissimo!”. Con buona pace degli abbondanti 45 minuti con i quali credevo di averlo battuto.
Domenico Cerabona
@DomeCerabona