La grande bellezza – Scene tagliate

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Avete presente l’arte fiamminga, quella scuola in cui la fa da padrone Bruegel il Vecchio con tutti i suoi discendenti? Ecco: i film di Sorrentino iniziano a farmi l’effetto di un capolavoro fiammingo.
Guardandolo non si può che ammirarne la grande maestria tecnica dell’autore, la maniacale cura per il dettaglio, così come non si può non rimanere affascinati dalle coltissime allegorie che dominano questo tipo di quadri, con riferimenti mitologici e biblici a profusione.
Tuttavia, nella mia piccola classifica, artistica l’arte fiamminga non raggiungerà mai la perfezione assoluta raggiunta da Leonardo, Raffaello o Michelangelo, né avvicinerà la prorompente emozione che suscita un quadro impressionista. 
La ragione è presto detta: l’arte fiamminga è, a mio modesto parere, troppo “di maniera”: troppo preoccupata di sfoggiare la propria maestria – che però rimane fine a se stessa, senza mai raggiungere la perfezione di un Michelangelo né l’apparente spontaneità di un Manet. 

Tutto questo preambolo apparentemente snob per dire cosa? Semplicemente, che i film di Paolo Sorrentino – che pure secondo me avrebbe tutte le carte in regola per essere un Michelangelo o un Manet del cinema – si stanno dirigendo verso il manierismo fiammingo: e questo un po’ mi dispiace.
Intendiamoci, stiamo sempre parlando di un grandissimo film – a mio parere migliore della sua ultima opera, This must be the place – ma vi sfido a non trovare alcune scene splendidi esercizi di stile un tantino forzati. 
Per usare un paragone calcistico, si potrebbe parlare di svariati doppi passi con tunnel a centrocampo, seguiti da un passaggio laterale: suscitano ammirazione, ma non servono a molto.
Ecco, penso questo di alcuni dei meravigliosi piani sequenza che abbondano in questo film: mostrano le grandi capacità tecniche di Sorrentino senza aggiungere niente alla storia.

A “reggere” la pellicola ci pensa il cast: ormai tutto è stato detto su Toni Servillo, non voglio ripetermi; dirò solo che, ancora una volta, si dimostra uno dei più grandi attori contemporanei, intendo a livello mondiale.
Questa volta Servillo interpreta Gep Gambardella, il re dei mondani romani: accento partenopeo, lingua lunga e pungente, dissacrante in ogni suo gesto, cinico con qualche ripensamento. È un personaggio irresistibile che si aggira per una Roma decadente e forse già decaduta, ma ciononostante meravigliosamente bella. 

Già, Roma: la Capitale è la vera protagonista di questo film, è lei che Sorrentino ci vuole raccontare per mezzo di Gep. Una città tentacolare e contraddittoria che ti conquista, ti delude, ma non ti lascia andare più via.
E proprio a questo serve il personaggio interpretato magistralmente da Servillo: Gep ha conquistato Roma, la conosce in ogni sua via, in ogni sua debolezza, non ha più niente da chiedere alla Capitale, è diventato proprio quello che desiderava diventare, eppure vaga annoiato e senza meta per le strade della Dolce Vita.

In questo suo vagare stancamente per una città che pare averlo stufato è accompagnato da una corte dei miracoli composta da intellettuali falliti, brillanti direttori di giornale, suore, spogliarelliste, cardinali ed ex soubrette: ruoli interpretati magistralmente dal meglio del cinema italiano con, tra gli altri, una sorprendente Sabrina Ferilli.

Insomma nel complesso un film da non perdere, in ogni caso.

VOTO: 7

Domenico Cerabona 
@DomeCerabona 

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