La gente che torna

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La gente che torna si siede e si toglie il cappotto: non sempre, nei luoghi in cui vivono, a dicembre si usa coprirsi.
Compagni di classe, o di calcio, o di università: gente incontrata per caso e setacciata con cura tra le migliaia di strette di mano della nostra prima parte di vita.

La gente che torna d’inverno torna tutta insieme: d’estate non c’è un giorno per esserci, e un quindici vale un ventitré (se il sabato cade al momento giusto). Se arrivano dall’Europa sono partiti dalla Germania, dalla Gran Bretagna, dalla Francia; se arrivano dal resto del mondo il loro passaporto ha i timbri di Canada, Brasile o Stati Uniti.
La gente che torna si ferma a casa, e “casa” è ovviamente molto di più del proprio tetto sulla testa. È casa il bar, il tavolaccio del pub, la pizzeria, l’aperitivo, il lungofiume, la piazza.

Dall’altra parte c’è la gente che resta: la separazione tra “noi” e “loro” è certamente figlia del tempo che passa. Si è smesso di essere ragazzini, e l’amico che va all’estero non è un semplice scolaretto privilegiato pronto a imboccare la corsia di sorpasso della scala sociale.
La gente che torna ci ricorda che stiamo invecchiando, le inesorabili sorti di ciascuno di noi; sovente la gente che resta è impigliata in contratti insulsi, partite iva, una carriera universitaria cigolante che dovrebbe prima o poi finire lanciandoci finalmente nel disorientamento più totale, con un titolo e nessuna competenza.

La gente che torna appare realizzata: la slavina di fotografie facebook ci seppellisce ogni giorno di ogni mese; vediamo la parte dorata del loro esilio, ché nessuno pubblica immagini di una zuppa surgelata consumata la sera tardi, da soli. Né sappiamo di quale immenso casino sia il capire se la propria vita sarà costruita qui o là, o se la propria moglie o i propri figli parleranno mai la lingua dei suoceri e dei nonni: dov’è che metterò radici, se mai le metterò? E soprattutto, cosa me lo farà capire?
Vediamo quindi spiagge e noci di cocco con la cannuccia, oppure il freddo di piste da sci francesi, oppure ancora il loro appartamento, che dovrebbe essere baraccato e transitorio in ogni carabattola fotografata e invece, mannaggia, è proprio una tana accogliente, quello che vorresti trovare a casa tua quando rincasi dall’ufficio: insomma, in un modo o nell’altro pure lì si son messi in quadro, ‘sti maledetti. Per inciso, di solito tu ad una casa “tua” non ci puoi manco pensare (né te la potresti permettere), e quando parli di “casa tua” tendenzialmente intendi “la casa dei tuoi”.

Ma la gente che torna non si merita questo meschino e istintivo rancore; del resto, son qui per grazia di Dio e non c’è tempo per piagnucolare su questo e su quello. La gente che torna è una scusa per festeggiare, per sbattere contro due boccali, per dire fesserie fingendo che il tempo e lo spazio contino alla fine un po’ meno di quel che sono in realtà.
La gente che torna sta poco, e quel poco lo si vuol succhiare tutto, strappandoli con insistenza da altre distrazioni e consumando compulsivamente gli attimi insieme.

La gente che torna riparte, perché non smette mai di essere tale: c’è sempre un posto dove sono attesi, sempre un posto in cui mancano, c’è sempre una città in cui tornare.

Umberto Mangiardi 
@UMangiardi

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